Intervista a Celio Festini, Combattente dell’Onore

(ASI) Montegrotto Terme – Ancora oggi, dopo quasi settant’anni dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, si sente parlare di combattenti “dalla parte giusta” e “da quella sbagliata”. Eppure, conoscere un  ex combattente con una tale forza morale, una tale energia, un profondo rispetto per il mondo fa commuovere. Una vita onesta, sincera, quella di Celio Fastini, classe 1924, di Conegliano (TV). Una fede che non si spegne, nemmeno dopo aver visto catastrofi immense. Testimone del bombardamento di Montecassino e di Treviso. Scampato alla fucilazione dai partigiani. Amico di Raimondo Vianello e Fred Buscaglione. Maestro di judo, e di vita.

 

 

Valentino Quintana: Signor Fastini, lei è del 1924? Figlio unico?

Celio Fastini: Sì, sono figlio unico. Sono del secondo quadrimestre dei richiamati della classe del ’24. Se fossi stato del primo, sarei stato mandato al fronte russo. E probabilmente, sarei rimasto lì, un po’ come il libro “Le scarpe al sole”, di Monnelli.

V.Q.: Nativo di Conegliano?

C.F.: No, nativo di Treviso, in clinica. Ma sempre vissuto a Conegliano.

V.Q.: Lei ha una vita intera da raccontare…  Cominciamo con lo sport, e andiamo a qualche ricordo della giovinezza. Ricorda ad esempio, le vittorie dei mondiali di calcio del ’34 e del ’38?

C.F.: Ricordo perfettamente le vittorie mondiali. Vittorio Pozzo instillava un amor patrio ai calciatori unico. Allenatori così sono leggende.

V.Q.: Così come la vittoria alle Olimpiadi del ’36. A proposito di quell’anno, il 09 maggio proclamavamo l’Impero.. Ci racconta qualcosa?

C.F.: La mia maestra si chiamava Ciotti. Ogni volta che si conquistava una città importante, appendeva una bandierina tricolore nella carta geografica dell’Abissinia. Ricordo il Ras Morugheta, nella Battaglia di Adua, particolarmente aspra per gl’italiani. Poi… I festeggiamenti per l’Impero furono enormi. Non le dico. Campane che suonavano a festa, gente per le strade. Un tripudio.

V.Q.: Il suo Liceo?

C.F.: Io feci il Ginnasio, si chiamava Parisato. Nella mia classe c’era un ragazzo nero, rarità per l’epoca. In realtà erano due fratelli, ed uno era in classe con me. Era figlio di un colonnello italiano in servizio per l’esercito belga, si chiamava Jean.  Questi era figlio di un militare e di una nobile nera. Jean era della mia classe, e si laureò con specializzazione in malattie tropicali.

V.Q.: Ha vissuto bene in quelli anni?

C.F.: Le dirò… Ero di famiglia benestante, mio padre comprò una Moto Guzzi per 2.500 lire. La vita non era proprio fantastica. Ma ad esempio, non c’erano accattoni per le strade. Le mense per i poveri funzionavano alla perfezione. Mio padre era commerciante di case e terreni. Era fiorentino. Servì il Genio Ferrovieri. I miei nonni materni erano di Lugo e Bagnacavallo. Paterni invece, il nonno era Ufficiale degli Alpini, morto dopo la Guerra del ’15 – ’18, per broncopolmonite contratta in trincea. Mio padre anche combatté nella Grande Guerra, sul Piave.

V.Q.: Andiamo al bienno 1939 – 1940.

C.F.: Ricordo molte manifestazioni antifrancesi e anti inglesi, oppure contro l’autarchia. Gli studenti delle superiori andavano a prendere quelli medi per scendere in piazza. I cartelloni erano anche in lingua francese, pochissimi in inglese. Non ho potuto partecipare alla Marcia della Giovinezza, perché all’epoca facevo atletica leggera col Treviso, ma ero infortunato alle gambe. C’era un entusiasmo unico, e ci sarei tanto voluto andare!

V.Q.: Il 10 giugno del 1940 fu l’ora delle “decisioni irrevocabili”.

C.F.: Sentii il discorso della dichiarazione di guerra alla radio. Ebbi una sensazione di stupore. Ma si sperava di vincere, al fianco della Germania, un alleato di quel genere poi! Tutto era andato bene sino a quel momento. Troppi sabotarono questa guerra. Io vidi i depositi pieni di materiale dopo l’8 settembre, che non vennero spediti ai nostri combattenti al fronte. Perché? Erano pieni di cose quei magazzini!

V.Q.: Quando venne richiamato alle armi?

C.F.: Qualche mese prima del 25 luglio del ’43. Ero in forze all’8° Reggimento Bersaglieri, d’istanza ad Udine. Dopo l’8 settembre tornai a casa, perché privo di ordini. Dopo, le varie caserme, i vari reggimenti si riunirono. Assieme ad altri amici, maturai l’idea di servire le Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana.

V.Q.: Se dovesse spiegarlo ad un giovane d’oggi, perché? Da una parte c’era il bando Graziani, che imponeva il richiamo alle armi. Dall’altra, la clandestinità, e il divenire partigiano. Perché la RSI?

C.F.: Per i miei ideali. Per il passato della mia Patria, perché credevo nell’educazione ricevuta. Ho scelto l’onore. Avevamo 18 o 20 anni, non sapevamo che la guerra fosse perduta del tutto. Le notizie arrivavano frammentarie, e non erano certe. Eravamo presi da un entusiasmo unico, credevamo nel miracolo. Alcuni insegnanti, patrioti, ci dicevano: “abbiamo tradito nel ’15 – ’18 la Germania, non possiamo tradire ancora!”. Ho scelto di combattere gli inglesi e gli americani che avevano invaso la mia Patria, non gli italiani.

V.Q.: Quando andò al fronte?

C.F.: Nel febbraio – marzo del ’44. Ci mandarono a Cassino, una settimana. Vidi l’Abbazia appena distrutta dal bombardamento. Ci rimanemmo poco, perché poi risalimmo per dare il cambio alla Divisione Monterosa, che presidiava i confini.

V.Q.: Quindi dove andò poi?

C.F.: A Treviso, alla Caserma Salsa. Il 7 aprile del ’44 Treviso fu colpita dal micidiale bombardamento angloamericano, che distrusse completamente la città. Essa subì un bombardamento a croce.

V.Q.: Quindi lei era lì, è testimone di quella catastrofe?

C.F.: Caspita se c’ero. Feci un volo di qualche metro, ma rimasi cosciente. Ero senza una scarpa, raccolsi morti e feriti, amici stesi per terra. C’era polvere ovunque, macerie… Un disastro. Io mi salvai perché durante il bombardamento mi tappai le orecchie e aprii la bocca durante lo spostamento d’aria. Una volta diradata la polvere, fu possibile stimare morti e feriti.

V.Q.: Ricorda qualcosa in particolare?

C.F.: Sì. Accanto a me c’era un ragazzo, soprannominato “Bibi”. Mi disse che aveva male alla testa. Gli slacciai il cinturino dell’elmetto, glielo tolsi, e mi rimase una parte del suo cervello in mano. La caserma non esisteva più, crollò come un castello di carte. Quanti dolori ed angosce.

V.Q.: Cosa fece dopo?

C.F.: Con un camion, ci portarono nei paesi vicini, me a Conegliano. Poi, ci mandarono ad Istrana, per l’ordine pubblico e necessità belliche. Rimasi lì e tornai a casa nel ’45 dopo il 25 aprile. Venni catturato dalla famigerata Brigata Garibaldi vicino a Colle Umberto. Mi salvai per un miracolo.

V.Q.: Come?

C.F.: Il comandante del presidio doveva fucilarci tutti. Chiese quindi nomi e cognomi. Dissi che mi chiamavo Fastini. Lui disse che conosceva un certo “Faustini”, ma replicai il mio vero cognome. Lui disse che i veneti storpiano sempre i cognomi, e che “Faustini” era un amico carissimo di suo padre. Andò a parlare al presidio con gli altri, forse inscenò qualcosa. Tornato, disse che si trattava di un errore, e mi lasciò andare.

V.Q.: Un miracolo quindi! Potrebbe essere già morto da 70 anni.

C.F.: Eh sì, proprio! Tornato a casa, trovai la Brigata Piave che occupava il Paese.  Molto più umana rispetto alla Garibaldi. Mi interrogarono, e feci 10 giorni di prigione. Poi, mi rilasciarono. Ero libero.

V.Q.: Ma tutto ciò non fermò il suo ideale.

C.F.: Affatto. Bisognava ricreare il partito. Così nacque l’MSI. Io fui uno dei primi tesserati. Assieme a De Toto, De Marsanich, Almirante. Sono stato il segretario dell’MSI di Conegliano.

V.Q.: Conobbe tutti, anche Almirante?

C.F.: Per l’amor di Dio, certo! Quando veniva a Treviso a fare i comizi, assieme a Fini e a De Toto, veniva da me. L’entusiasmo era alle stelle.

V.Q.: E la sua vita nel dopoguerra?

C.F.: Mi iscrissi a scienze economiche a Venezia, e suonavo nelle formazioni universitarie. All’epoca, a Padova, c’era Alfredo Bongusto, Fred, studiava psicologia all’Università. Trovammo all’epoca il Maestro Erico, che aveva scritto canzoni per Nilla Pizzi, e stava formando un complesso. Mongusto è molisano. Ricordo che era orfano di padre, ospite di una zia, e formammo questo complesso, esordendo a Padova, al Caffè Pedrocchi. Andammo In Germania, in Danimarca, in Europa. Poi si sciolse, e ognuno fece la sua carriera.

V.Q.: Si laureò nel frattempo?

C.F.: No, né io né Mongusto. E mi dispiace parecchio, avevo dato diversi esami.

V.Q.: Da artista avrà conosciuto diversi colleghi…

C.F.: Altroché! Mi vedevo spesso con Raimondo Vianello, un gran Signore. Poi ho conosciuto Clem Sacco, Tino Scotti, Johnny Dorelli (appena tornato dall’America), Fred Buscaglione, Pippo Baudo. All’epoca, suonavo a Milano al Moulin Rouge. Molti lavoravano in un teatro poco distante, e la sera, venivano tutti al locale. Al contempo, non disdegnavo mai la politica.

V.Q.: Qualche aneddoto?

C.F.: Certo. Ad un comizio a Conegliano, al Teatro Accademia, ricordo il massiccio affollamento. Non facevano passare nessuno. Io mostrai la mia tessera. Quando la videro, dissero: “questa è una tessera del ’46!”, e si aprii un varco. Passai come un trionfatore…

V.Q.: Comizio di Almirante immagino. E ne ha mai visto uno mussoliniano?

C.F.: Sì. Ricordo un discorso di Mussolini che fece in una tribuna di fronte alla stazione dei treni. Lui salì in tribuna, fece il suo discorso, e poi ripartì. Doveva essere durante il viaggio nelle venezie che fece nel ’38. Ricordo l’enfasi, il tono unico, mai sentito nulla di simile.

V.Q.: Ricorda particolari della morte del Duce?

C.F.: Vidi le foto nei giornali, non ricordo se fosse la Domenica del Corriere o quale altro. Ma rammento anche le morti di Gentile e di Muti, vigliaccate pazzesche.

V.Q.: La sua vita è andata avanti.

C.F.: Ho insegnato per trent’anni educazione tecnica nelle scuole. Prima negli Istituti Agrari, poi nelle Scuole Medie.  Io volevo fare il conservatorio, ma mio padre non acconsentì. Presi un diploma in Agraria, a tempo perso. Così insegnai.

V.Q.: Quindi alternò l’insegnamento alla carriera politica locale.

C.F.: Sì. Non sa quanto rimasi male per lo scatafascio del partito. Fini era una persona intelligente, non capirò mai il voltafaccia. Io lo ho conosciuto bene, lo ho anche stimato. Perché abbia fatto quelle scelte, davvero, non lo capirò mai. Rimarrò orfano del mio partito.

V.Q.: Cosa ne pensa dei tempi moderni?

C.F.: Se da una parte, la tecnologia ha visto un progresso spaventoso, dall’altro la decadenza morale ha raggiunto livelli mai visti. Padri che ammazzano moglie e figli, giovani che vivono come se fossero in un postribolo, svuotamento spirituale delle coscienze. Sa, io avrei voluto stabilirmi in Danimarca. Cinquant’anni fa capii la differenza morale tra loro e noi. Avevo un amico, che lavorava per l’Istituto di Cultura Italiana a Copenaghen. Mi aiutò per un periodo, sistemandomi in una casa, e a trovare un lavoro. Dirigevo un bel locale, avrei fatto una carriera straordinaria. Ma tornai in Italia. Allora, capii che cosa significa avere stato sociale. In Italia, oggi come allora, funziona solo se si hanno “amici degli amici”.

V.Q.: Già. Ora la nostra generazione si troverà ad affrontare problemi enormi.

C.F.: Guardi. Mio padre spese una fortuna per mantenere mia madre, che era spesso malata. Io sono figlio unico, cosa rara per l’epoca. In una casa si entrava in punta dei piedi. C’era rispetto per gli anziani. Per mia figlia, ora, a 90 anni, mi butterei sotto una macchina se fosse in pericolo. Questo è per me avere senso morale.

V.Q.: Non posso aggiungere nulla.

C.F.: Lo farò io allora, visto che le piace la storia. Conosce Carlo Fecia di Cossato? Io lo conobbi perché un’amica di mia moglie aveva sposato un sommergibilista che faceva azioni assieme a lui. Lei sa perché si suicidò. Perché non credeva più, né riteneva possibile ciò che era accaduto. Quello è rigore morale.

V.Q.: Lei è un maestro Signor Fastini.

C.F.: Sì, di judo. Ho fatto 44 anni di judo. Mai una scalfittura. Ah dimenticavo, conosco mia moglie da 72 anni, abbiamo fatto le nozze di diamante….

 

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

 

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