(ASI) Trent’anni fa, a Beirut Ovest, si consumava quella che molti hanno definito la peggiore espressione della guerra civile libanese: il massacro di Sabra e Chatila. Tra il 16 e il 18 settembre del 1982, nella Beirut invasa dall’esercito israeliano con l’operazione «Pace in Galilea» ideata e voluta dall’allora ministro della difesa Ariel Sharon, le milizie cristiano falangiste compirono la mattanza di tantissimi uomini, donne e bambini, nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila.
Il ricordo che rimane ora di quei terribili giorni è sbiadito: solo un piccolo giardino, aperto da un cancello arrugginito, con nel mezzo una lapide e ai lati degli striscioni con le foto di allora, cercano di non far dimenticare le vittime. Il comandante delle milizie cristiano maronite del tempo, Elie Hobeika, che avrebbe dovuto recarsi all’Aja per fare rivelazioni sul presunto coinvolgimento di Ariel Sharon, è morto in un incidente stradale – che molti hanno definito «misterioso» - nel gennaio del 2002. In occasione del trentesimo anniversario del massacro, Ahmed Bahr, vice presidente del consiglio legislativo palestinese, ha rivendicato il diritto «di perseguire i responsabili israeliani, nelle sedi internazionali, per crimini di guerra e contro l’umanità».
«Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come mosconi, all'inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti» scrive Robert Fisk, uno dei primi giornalisti ad entrare nel campo profughi quando le milizie si erano ritirate. Penso proprio a questo mentre sto entrando a Chatila: le mosche non se ne sono ancora andate e l’odore acre persiste. E come in quegli anni, i problemi dei palestinesi nel Paese dei Cedri, sono ancora tanti.
«Uno dei maggiori problemi è dovuto alla mancanza di risorse sanitarie e poi manca acqua ed elettricità» mi dice il mio accompagnatore, un membro della sicurezza di Fatah che mi aspettava in uno dei vicoli per entrare nel cuore del campo. Qui le patologie che vengono riscontrate più frequentemente sono la talassemia, i gravi disturbi intestinali causati dal consumo di acqua salata – all’interno dei campi, l’acqua contiene circa il 60% di sale – e le allergie causate dall’umidità. Il sole, molto spesso, non riesce a filtrare nel labirinto dei vicoli perché, mi dice, «è vietato costruire, non c’è alcuna possibilità di espansione. L’incremento demografico è sotto gli occhi di tutti e quindi non possiamo che edificare verticalmente, verso l’alto». Continuando a camminare arrivo nell’unico ospedale del campo e la dottoressa all’interno sottolinea che «a Chatila c’è solo un presidio medico per oltre 17mila persone». Poi aggiunge: «viene elargito qualche aiuto internazionale per la sanità ma non ci basta».
In Libano ci sono circa 450mila rifugiati palestinesi che vivono nei dodici campi regolarmente riconosciuto e nei venticinque insediamenti illegali. Il 60% dei profughi palestinesi vive sotto la soglia di povertà e il tasso di disoccupazione supera il 40%. A Beirut esiste solo una scuola superiore per gli oltre 65mila rifugiati che ci vivono e l’abbandono scolastico è continuo. I dati stilati da un rapporto dell’«Unrwa», l’ente delle Nazioni Unite per i rifugiati, riferisce un dato allarmante: degli oltre mille studenti che ogni anno raggiungono la maturità, solo l’8% ottiene una borsa di studio che gli permette l’iscrizione in una delle università pubbliche aperte ai palestinesi.
Intanto Papa Benedetto XVI è partito dal Paese dei Cedri con «il desiderio di ritornare». Nel discorso alla cerimonia di congedo ha ripercorso gli incontri di questi giorni: «vi sono stati momenti più ufficiali, altri più intimi, momenti di alta intensità religiosa e di fervida preghiera e altri ancora, segnati dall’entusiasmo della gioventù» e ha aggiunto una preghiera per la pace in Libano «affinché resista con coraggio a tutto ciò che potrebbe distruggerla o minacciarla».
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, subito dopo la partenza di Benedetto XVI dal Paese, ha esortato i libanesi a scendere nelle strade per protestare contro la pellicola anti-islam prodotta negli Stati Uniti. «Voi dovete mostrare al mondo intero la vostra collera e il vostro grido», ha detto in un discorso diffuso dalla tv libanese Al-Manar. E durante la manifestazione di ieri a Beirut Sud, nel quartiere di Dahie, davanti a centinaia di migliaia di persone è apparso anche lui. «Coloro che hanno partecipato alla realizzazione di questo film verranno puniti da Dio», ha affermato Nasrallah, rivolgendosi alla folla.
Fabio Polese per Agenzia Stampa Italia