(ASI) La risoluzione presentata ieri al Consiglio di Sicurezza dell'ONU da Washington, nel terzo anniversario dell'inizio della guerra russo-ucraina, potrebbe probabilmente sancire la fine delle ostilità. Dieci i voti a favore, tra cui quelli di Stati Uniti, Russia e Cina, nessuno contrario e cinque astenuti, cioè Gran Bretagna, Francia, Danimarca, Grecia e Slovenia.
Al di là della condanna simbolica dell'invasione russa votata poco dopo a maggioranza dall'Assemblea Generale su iniziativa congiunta di Ucraina e Paesi UE, il voto espresso (o non espresso) dai cinque membri permanenti del Consiglio, ovvero le cinque potenze nucleari vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, spiana la strada all'individuazione di un compromesso solido.
La svolta annunciata da Donald Trump è stata così messa nero su bianco dalla nuova diplomazia statunitense, chiedendo la fine della guerra in modo generico, senza accennare alla Russia come aggressore o all'integrità territoriale dell'Ucraina. È questo lo strappo più evidente della nuova Amministrazione con l'indirizzo intransigente dei predecessori democratici, supportati in molte scelte di politica estera anche da una larga fetta di neoconservatori.
L'inviata statunitense all'ONU, Dorothy C. Shea, subentrata poco più di un mese fa a Linda Thomas-Greenfield, ha spiegato che gli Stati Uniti hanno optato per una «dichiarazione semplice e storica da parte dell'Assemblea generale che guardi avanti, non indietro», sottolineando che il Paese vuole ora promuovere un documento «forte che ci impegni a porre fine alla guerra e a lavorare per una pace duratura» [Euronews].
La votazione è avvenuta nello stesso giorno della visita a Washington di Emmanuel Macron, che ha incontrato Trump alla Casa Bianca, dove ha preso parte ad un vertice bilaterale e ad un G7 in videoconferenza. Com'era prevedibile, il presidente francese, da anni principale promotore dell'autonomia strategica europea e forte sostenitore della causa ucraina, non potrà che adeguarsi al nuovo corso politico degli Stati Uniti.
L'unica iniziativa che Parigi, in condivisione col premier britannico Keir Starmer, ha proposto a Trump è l'invio di 30.000 soldati europei in territorio ucraino come forza di peacekeeping a garanzia della sicurezza di Kiev. Ma è sottointeso che l'Ucraina eventualmente da proteggere domani sarà un Paese privato della Crimea, conquistata da Mosca nel 2014, e delle quattro regioni occupate ed annesse ufficialmente dal Cremlino nel settembre 2022, cioè gli oblast' di Donet'sk, Lugans'k, Kherson e Zaporižžja, già ribattezzato col vecchio nome russo di Zaporož'e.
La trasferta nordamericana dell'inquilino dell'Eliseo indebolisce inoltre il fronte UE, sempre meno compatto attorno alla linea dura di Ursula Von der Leyen e Kaja Kallas, ribadisce nei fatti la storica subalternità militare dell'Europa agli Stati Uniti e brucia sul tempo Giorgia Meloni, tempo fa indicata quale possibile pontiere tra Bruxelles e Washington, sebbene l'ipotesi apparisse più una suggestione giornalistica che una vera e propria indicazione dei vertici comunitari.
Come sempre accade nelle relazioni internazionali, la narrazione ideologica e le opinioni morali devono giocoforza lasciare spazio alla politica reale, cioè agli interessi strategici concreti e ai calcoli costi/benefici. E la guerra in Ucraina sta costando troppo, a tutti, a partire proprio dal Vecchio Continente e dalla sua locomotiva economica, la Germania, dove la crisi industriale, figlia di quella energetica, continua a picchiare duro dopo due anni di recessione (-0,3% nel 2023 e -0,2% nel 2024). A questo deve aggiungersi l'assistenza militare statunitense, sin qui determinante per l'esercito ucraino. Stando ai dati del Dipartimento alla Difesa, aggiornati allo scorso 20 gennaio, il valore di armamenti e strumentazioni fornite a Kiev dal solo Pentagono ammontava a 65,9 miliardi di dollari: cifre che Trump non è più disposto a spendere per una guerra che, se può non essere persa, certamente non può essere vinta.
Pechino guarda con favore alla soluzione politica del conflitto: un obiettivo inseguito da molto tempo, messo per iscritto in un piano ad hoc presentato il 24 febbraio 2023, ad un anno dall'avvio delle ostilità tra i due Paesi slavo-orientali. Presentato dal ministro degli Esteri Wang Yi, il documento dal titolo China's Position on the Political Settlement of the Ukrainian Crisis, metteva insieme le ragioni delle due parti per arrivare ad una soluzione condivisa, sottolineando l'importanza del principio della sovranità e dell'integrità territoriale, da un lato, e del principio di indivisibilità della sicurezza, dall'altro.
Non a caso, queste due istanze sostanziavano i primi due dei dodici punti che componevano la proposta: rispetto della sovranità di tutti i Paesi; abbandono della mentalità da Guerra Fredda (quindi nessun allargamento dei blocchi militari); cessazione delle ostilità; ripresa dei negoziati; risoluzione della crisi umanitaria; protezione dei civili e dei prigionieri di guerra; sicurezza degli impianti nucleari; riduzione dei rischi strategici; facilitazione dell'export di grano; blocco delle sanzioni unilaterali; stabilità delle catene industriali e logistiche; promozione della ricostruzione post-bellica.
Interpretato come "vago", "ambiguo" ed "opportunista" da diversi analisti occidentali, il piano cinese fu rifiutato in blocco dai Paesi NATO e messo in soffitta da Mosca, che fece sapere di trovarlo interessante ma non in linea coi tempi del conflitto. Ora, con la svolta voluta da Trump, la proposta cinese potrebbe tornare d'attualità ed integrare le idee di Washington, forse facilitando anche un percorso di riavvicinamento con Pechino dopo anni di tensioni commerciali, tecnologiche e militari, anche se in questo caso le partite sono altre e tutte ancora da giocare.
«La Cina ha notato che di recente gli appelli alla pace stanno crescendo e la finestra di opportunità per la pace si sta schiudendo», aveva osservato la settimana scorsa lo stesso Wang Yi a Johannesburg, in occasione del vertice dei ministri degli Esteri del G20. Il capo della diplomazia cinese aveva aggiunto: «Sebbene le parti mantengano posizioni differenti e sia difficile trovare soluzioni semplici a questioni complesse, il dialogo è sempre preferibile al conflitto e i negoziati di pace sono sempre preferibili ai combattimenti».
In Sudafrica, il ministro cinese aveva ricordato ai presenti l'impegno costante del colosso asiatico, in linea con i quattro punti delineati da Xi Jinping: rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi; osservanza dei propositi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite; dovuta considerazione per le legittime preoccupazioni in materia di sicurezza di tutti i Paesi; sostegno a tutti gli sforzi in grado di condurre ad una soluzione pacifica della crisi.
A questi vanno sommati i quattro principi già espressi ad aprile dello scorso anno dal capo di Stato del gigante asiatico, in occasione dell'incontro con l'allora cancelliere tedesco Olaf Scholz: dare priorità al sostegno della pace e della stabilità, astenendosi dal ricercare vantaggi particolari; raffreddare la situazione, astenendosi dall'aggiungere benzina al fuoco; creare le condizioni per il ripristino della pace, astenendosi dall'esacerbare le tensioni; ridurre l'impatto negativo sull'economia mondiale, astenendosi dal compromettere la stabilità delle catene industriali e logistiche globali.
«La Cina sostiene tutti gli sforzi orientati alla pace, compreso il recente consenso raggiunto tra Stati Uniti e Russia», aveva chiarito Wang a Johannesburg cinque giorni fa, auspicando una soluzione sostenibile e duratura, capace di tenere in considerazione le rispettive preoccupazioni delle parti coinvolte. Ora c'è più di una luce in fondo al tunnel. A condizione, però, che Trump non chiuda la partita in Ucraina per aprirne un'altra a Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale. Sarebbe come compiere un passo in avanti per poi farne due o tre indietro.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia