(ASI) Se anche l'agenzia statale cinese Xinhua l'ha inserito tra i dieci principali avvenimenti internazionali del 2024, significa che, dal punto di vista di Pechino, il rovesciamento dell'ex presidente siriano Bashar al-Assad dell'8 dicembre scorso è destinato ad avere un impatto significativo sui futuri equilibri del Medio Oriente.
La Cina che, a differenza del partner russo, non si è mai eccessivamente esposta in difesa del decaduto regime di Damasco, ha mantenuto relazioni stabili con la controparte siriana durante l'intera fase bellica (2011-2024), senza interferire nelle ostilità ma limitandosi ad inviare aiuti umanitari ed esortando le parti ad individuare una soluzione politica. Gli incontri bilaterali tra delegazioni di alto livello e le visite di Assad nel Paese asiatico - l'ultima a Hangzhou nel settembre 2023 - hanno cercato di rafforzare i rapporti diplomatici, economici e commerciali sulla base dei cinque principi di coesistenza pacifica.
Il sostanziale congelamento del conflitto concordato da Mosca e Ankara - prima ad Astana nel 2017, poi a Sochi nel 2019 - aveva contribuito a mettere in secondo piano il teatro siriano. Tra il 2022 e il 2023, la guerra russo-ucraina e quella israelo-palestinese lo avevano di fatto oscurato. L'improvviso riacutizzarsi dei combattimenti e la rapida caduta di Assad hanno riportato la nazione del Vicino Oriente sotto i riflettori internazionali. Dopo tredici anni, centinaia di migliaia di morti, milioni tra sfollati e profughi, oggi la Siria cerca faticosamente di rialzarsi dalle macerie di una guerra che ha spaccato in due fronti contrapposti le numerose comunità etno-religiose che da secoli ne abitano il territorio: sunniti, sciiti (alawiti e aleviti), drusi, cristiani ortodossi, cattolici (melchiti), curdi e yazidi.
Il nuovo capo politico del Paese, Ahmad Husayn al-Sharaa, noto in battaglia come Abu Muhammad al-Joulani, consacrato dall'ultima decisiva avanzata sul campo, sembra tutt'altro che una figura ecumenica. Sebbene la narrativa del nuovo establishment siriano stia cercando di cucirgli addosso un abito moderato e riformista, la sua storia personale pone seri interrogativi per il futuro. Nato a Riyadh, in Arabia Saudita, nel 1982 da una famiglia di emigrati siriani, Joulani si unì ad Al-Qaeda, la rete terroristica creata da Osama bin Laden, combattendo per tre anni in Iraq contro l'occupazione statunitense, prima di essere catturato dalle stesse forze nordamericane nel 2006.
Trascorsi cinque anni in prigione fu liberato e, trasferitosi in Siria durante la prima fase della guerra civile, in poco tempo fondò il Fronte al-Nusra (Jabhat al Nusra) nella città di Deir ez-Zor, sulle sponde dell'Eufrate. Affiliata ad Al-Qaeda, tale formazione si prefiggeva l'obiettivo di rovesciare il governo ba'athista guidato da Assad per instaurare uno Stato islamico basato sulla Sharia. Tra l'estate del 2016 e l'inverno del 2017, dopo vari tentativi di compattare le forze dell'Islam politico (sunnita) settario sotto la nuova sigla di Jabhat Fatah al-Sham, Al Joulani ruppe definitivamente i rapporti con la rete qaedista e diede vita, con altre sigle islamiste siriane, ad Hay'at Tahrir al-Sham, ovvero l'Organizzazione per la Liberazione del Levante.
«Jolani era siriano, figlio di un intellettuale panarabista», sostiene il Prof. Hilmi Demir, dell'Istituto di Studi Sociali di Ankara, che aggiunge: «Il suo obiettivo era più quello di salvare la Siria, la patria di suo padre, che di portare avanti un movimento jihadista globale [...] Nel corso degli anni, i principali combattenti di Al-Qaeda sono stati uccisi uno dopo l'altro dai droni statunitensi, contribuendo alla trasformazione della leadership di Al-Nusra. Questi omicidi mirati hanno concorso a "sirianizzare" la leadership di Nusra attorno a Jolani» [Toplum Çalışmaları Enstitüsü, 13/12/2024].
Eppure, per molti analisti, Joulani resta ancora un islamista radicale. Non è un caso se, fino ad un mese fa, sulla sua testa pendeva una taglia di 10 milioni di dollari del Dipartimento di Stato USA, a beneficio di chi avesse fornito informazioni utili alla sua cattura: ricompensa prontamente annullata lo scorso dicembre al termine di un incontro tra lo stesso Joulani e una delegazione di Washington. Una volta insediatosi quale presidente ad interim del Paese, l'atteggiamento generale dei governi occidentali (e non solo) verso Joulani è ovviamente cambiato.
I veti posti dalla Cina in sede ONU tra il 2012 e il 2019 su varie risoluzioni presentate da diversi attori in risposta alla crisi siriana nascevano non tanto dalla volontà di proteggere Assad quanto piuttosto da due timori: inizialmente, che la Siria potesse trasformarsi in un'altra Libia, bombardata da una coalizione NATO nel 2011, presa d'assalto da sigle fondamentaliste e sprofondata nel caos; in seguito, specie a partire dal 2015, che le migliaia di combattenti di etnia uigura presenti in Siria, provenienti dalla diaspora ma anche dalla regione autonoma cinese dello Xinjiang, potessero rientrare in patria rafforzando le capacità operative delle sigle terroriste e separatiste locali, come il famigerato Movimento Islamico del Turkestan Orientale (ETIM), responsabile, tra gli anni Novanta e Duemiladieci, di numerosi attentati sia in Cina che all'estero contro obiettivi cinesi.
Le perplessità di Pechino in questo senso sono riemerse di recente all'ONU. «La Cina è fortemente preoccupata dai rapporti secondo cui l'esercito siriano ha recentemente concesso alti gradi militari ad una serie di combattenti terroristi stranieri, tra i quali il capo di un'organizzazione terroristica annoverata nella lista dal Consiglio, cioè il Partito Islamico del Turkestan, noto anche come Movimento Islamico del Turkestan Orientale», ha detto lo scorso 9 gennaio Fu Cong, rappresentante permanente della Repubblica Popolare alle Nazioni Unite, durante un incontro del Consiglio di Sicurezza dedicato alla Siria [Global Times, 9/1/2025].
Dall'efficacia della mediazione tra le diverse fazioni che hanno il compito di gestire la complessa fase del dopo-Assad dipenderà il futuro del Paese e dell'intera regione mediorientale. Il 13 dicembre, a soli cinque giorni dalla caduta di Damasco, in conferenza stampa congiunta con l'omologo egiziano, il ministro degli Esteri Wang Yi, richiamando la risoluzione ONU 2254, votata all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza nel 2015, ha sottolineato il sostegno di Pechino «alla rapida realizzazione della pace in Siria e all'individuazione di un piano di ricostruzione che soddisfi i desideri della popolazione attraverso un dialogo inclusivo» [Xinhua, 13/12/2024].
La priorità, per il colosso asiatico, è che la comunità internazionale salvaguardi seriamente la sovranità e l'integrità territoriale della Siria, rispetti le tradizioni etniche e religiose del Paese e consenta al popolo siriano di assumere decisioni indipendenti. L'auspicio cinese, infine, è che tutti gli attori «lavorino insieme per aiutare la Siria, premano per la rimozione delle sanzioni unilaterali illegalmente imposte contro Damasco nel corso degli anni ed allevino la grave situazione umanitaria» [Ibidem].
Lo scenario è ancora fortemente incerto. Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati cercano una sponda con il nuovo governo ma l'ormai imminente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe sparigliare le carte. Quello siriano, infatti, è l'ultimo capitolo dell'ormai remota (e fallita) stagione delle cosiddette "primavere arabe", esplose nel 2011 con il supporto politico, più o meno esplicito, dell'Amministrazione Obama: oggi, il contesto geopolitico è radicalmente cambiato. Dall'altro lato, la Russia potrebbe aver concordato con le forze anti-Assad, e con la stessa Turchia, un'uscita morbida dalla Siria per concentrarsi sul campo di battaglia ucraino, chiedendo garanzie in merito alla storica base navale di Tartous, strategica per la flotta del Cremlino.
La Cina? Pechino attende. Non passivamente, come già accennato, ma cercando di ritagliarsi un ruolo diplomatico attivo, non soltanto per evitare che la Siria possa trasformarsi in un nuovo grande campo di addestramento per terroristi ma anche per individuare spazi di investimento in un Paese che ha un disperato bisogno di capitali, tecnologie e competenze per ricostruire le reti infrastrutturali necessarie alla rinascita e alla modernizzazione dell'economia nazionale. E in questo settore, Pechino, al momento, sembra non avere rivali.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia