Tensioni nei Balcani: breve analisi per un eterno conflitto

Una granata stordente colpisce una pattuglia di ricognizione della missione Eulex; atti violenti e criminali, tuona Borrell. Posticipate le elezioni nel nord del Kosovo per non aggravare la situazione.

(ASI) Da venerdì 9 dicembre nel nord del Kosovo la tensione è tornata nuovamente alta, complice le continue schermaglie nelle regioni settentrionali del Paese, dove è concentrata una forte minoranza serba. Nel pomeriggio dello stesso giorno, dopo la decisione di Priština di inviare alcune forze di polizia per tenere sotto controllo la situazione a Kosovska Mitrovica e alle aree di confine (considerando che gli agenti serbo-kosovari dimessisi in massa a inizio novembre non sono ancora tornati in servizio).

Proprio Kosovska Mitrovica, o “Mitrovicë” per gli albanesi, è diventata una città di frontiera, in eterno contrasto. I quartieri a Nord vengono gestiti dai serbi, mentre quelli a Sud dagli albanesi. Le due comunità vengono a contatto diretto non solo su base cittadina, ma parastatale. Le istituzioni kosovare nelle zone a nord sono rifiutate dalla popolazione serba, con scuole, uffici pubblici, ospedali, gestiti direttamente dalla Serbia attraverso strutture datate e precedenti al 1999. La consuetudine poi vuole che i serbi debbano evitare di andare a Sud, così come i kosovari hanno ben pochi motivi, se non lavorativi, per muoversi nei quartieri a Nord.

Un’area leggendaria per i serbi, nella quale il 28 giugno del 1389 si tenne una sanguinosa battaglia per il controllo della regione tra l’esercito serbo-bosniaco di Lazar Hrebelianovic e l’esercito ottomano del Sultano Murad I (Kosovo polije o battaglia della Piana dei Merli). Nonostante la sconfitta, per i serbi quella contrapposizione etnico-religiosa dello scontro non si esaurirono con quella battaglia, ma permasero nella mitologia nazionale e nell’epica serba, considerando anche la successiva sconfitta del 1448 ( con la perdita definitiva del Kosovo).

 Anche gli albanesi avevano combattuto i turchi, menzione necessaria va fatta al principe (eroe nazionale) Giorgio Kastriota detto Scanderberg, che arrestò l’avanzata turca finché fu in vita (1468). Tuttavia la dominazione del Sultano favorì un imponente flusso migratorio albanese dall’Epiro verso la fertile pianura del Kosovo, in quel periodo sottopopolata, sia dal ritiro verso il Danubio dei serbi che dalla peste, in un continuo spostamento fino ai primi decenni del 1600. Numerosi furono gli albanesi che si convertirono in massa alla religione islamica, preservando una posizione privilegiata nell’amministrazione e nella società turca. Due fenomeni migratori che mantennero una certa continuità fino al 1900, con un quadro etnico assai complesso e nelle fattezze simili a come possiamo osservarlo oggi.

Con il potere centrale ottomano che si sgretolava, serbi e albanesi cominciarono a rivendicare la regione kosovara, con le frizioni tra la Lega di Prizren e il principato di Serbia. Una storia infinita per una polveriera che deflagrò proprio durante i primi anni del secolo breve, un mix tra nazionalismo serbo e autodeterminazione albanese (che venne poi disattesa a Versailles) capace di scatenare una guerra epocale. Questa spolverata di eventi storici, non hanno la pretesa di un’analisi completa ma ben inquadrano l’area e le ceneri che ardono contrasti mai sopiti di entrambe le fazioni. Dissidi che troveranno l’apice nel sanguinoso periodo di Slobodan Milošević (1989), quando, contestualmente alla crisi dell’ideologia comunista, in Jugoslavia, il nazionalismo toccò vette altissime e si scagliò pesantemente verso l’etnia albanese presente in Kosovo, cancellando l’autonomia concessa sotto Tito (Rep. Federativa con diritto di secessione unilaterale), reprimendola con vistose violazioni dei diritti umani.

 Non a caso a Gazimestan, nell’incipit del suo discorso per l’anniversario dei seicento anni dalla battaglia della Piana dei Merli Milošević ebbe modo di affermare: “Il Kosovo è il centro esatto della storia serba, della sua cultura e della sua memoria. Ogni nazione ha un amore che scalda il suo cuore. Per la Serbia è il Kosovo”.

In questi anni di fibrillazione, fu Ibrahim Rugova a condurre le volontà indipendentistiche kosovare con la Lega Democratica del Kosovo (LDK), che guidò il popolo kosovaro nel decennio 1989-1999, costituendo una società parallela opposta al centralismo di Belgrado. I kosovari di etnia albanese, non riconoscendo più la sovranità centrale, boicottarono tutte le istituzioni serbe e decisero di non partecipare più alle elezioni, arrivando a costituire un sistema partitico regionale separato.

 Rugova, nell’estate del 1990, proclamò l’indipendenza (2 luglio 1990) opponendosi alle politiche di Belgrado, tanto da istituire un referendum, non autorizzato, che, nel 1991 con un’affluenza pari all’87% della popolazione, confermò la volontà indipendentistica con il sì del 99,98% dei votanti. I serbi, intorno al 10% della popolazione, boicottarono il referendum, che non ottenne alcun riconoscimento internazionale (solo l’Albania riconobbe l’esito referendario). Una politica non violenta quella di Rugova che riuscì a contenere il conflitto fino al 1996, quando i continui episodi di violenza si trasformarono in una vera e propria guerra civile.

L’intervento della Nato prima e dell’Unione Europea in seguito, e il contestuale ruolo subalterno della Russia di El’cin, permise di creare i presupposti affinché il popolo kosovaro potesse rendere effettiva e sicura la propria indipendenza. Il partito LDK provò fin dai primi anni ’90 a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, non trovando però attori pronti a farsi carico della causa kosovara. L’UÇK di Thaçi riuscì invece laddove Rugova aveva fallito, ottenendo l’appoggio dell’amministrazione Clinton, ma con omicidi e attentati contro cittadini di etnia serba (inchiesta di Eulex) che scatenò una violenta reazione, come il massacro di Račak verso civili di etnia albanese. Non a caso dopo tali eventi nel febbraio del 1999, nel castello di Rambouillet, si tenne il negoziato diplomatico che rese la questione kosovara non più una questione prettamente legata alla politica interna serba, (come nel 1995 a Dayton), ma divenne una questione di rilevanza internazionale, con il tentativo di domare le tendenze nazionaliste balcaniche da parte delle potenze europee.

L’intervento della Nato nel marzo del 1999, senza alcuna legittimazione delle Nazioni Unite, fu chiaramente richiesto dall’UÇK che, grazie all’appoggio dell’aviazione statunitense, riuscì a prevalere sull’esercito serbo e a creare i presupposti per la nascita della Repubblica del Kosovo. La Risoluzione ONU 1244 del giugno 1999 sancì, sotto la guida delle Nazioni Unite, che il KFOR avrebbe occupato il Kosovo al fine di stabilizzare la regione e a tempo debito indire elezioni per determinare le forme dell’autonomia ma non dell’indipendenza kosovara. Nel novembre 2007 si tennero nuove elezioni dopo la morte del Presidente Rugova (che furono boicottate dalla popolazione serba) e che portarono al potere il PDK di Hashim Thaçi con il 35% dei voti. Essendo scaduti nel dicembre del 2007 i negoziati per stabilire lo status del Kosovo, il Presidente Thaçi, con l’assenso dell’Unione Europea (attraverso l’Eulex), proclamò l’indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008). 

La proclamazione dell’indipendenza ha chiaramente aumentato le frizioni (oltre ad aver creato un casus normativo internazionale cavalcato dalla Russia di Putin, sia in Georgia che in Ucraina) continuano a dominare i rapporti tra Belgrado e Priština, soprattutto, come detto, nel Kosovo del nord, dove risiedono la maggior parte dei serbi del Kosovo, i quali, pur facendo parte del territorio del nuovo stato kosovaro, non riconoscono il parlamento di Priština.

E’ chiaro quindi che le odierne frizioni non possono essere sottostimate, così come le barricate ai valichi di frontiera alzate dalle frange più estremiste della minoranza serba-kosovara. Le proteste si sono esacerbate con la notizia dell’arresto di un ex-agente della polizia kosovara, Dejan Pantić, di etnia serba, accusato di attacchi terroristici. I blocchi stradali nel settore nord di Kosovska Mitrovica, Zvečan e Leposavić sono stati realizzati con mezzi pesanti, tra cui anche alcuni donati da Bruxelles attraverso i progetti finanziati dall’Ue,  mentre sono aumentati gli atti di sabotaggio che hanno coinvolto anche Eulex.

A questo si aggiunge la situazione politica nel nord del Kosovo, che si intreccia con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali del 5 novembre, in segno di protesta contro l’obbligo di sostituire le targhe serbe con quelle rilasciate dalle autorità di Pristina. Tra i dimissionari ci sono anche i sindaci appunto delle città dei blocchi stradali, che dovranno tornare alle urne, ulteriore elemento di tensione con le frange più estremiste della minoranza serba in Kosovo. Le elezioni anticipate in programma inizialmente per il 18 dicembre sono state rinviate al prossimo 23 aprile dalle istituzioni di Priština, per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo. Ad annunciarlo è stata la stessa presidente Osmani, dopo consultazioni con diverse forze politiche.

Nel quadro dell’escalation di tensione nel nord del Kosovo, la storia e la politica locale si intersecano con quella internazionale. Se il 2023 sarà davvero l’anno dell’accordo definitivo tra i due Paesi balcanici, chi vincerà le elezioni locali nelle città del nord sarà verosimilmente il rappresentante dei serbi del Kosovo all’interno della Associazione delle municipalità e Belgrado ha tutto l’interesse che Lista Srpska, il partito più vicino al presidente serbo Aleksandar Vučić, non perda la presa politica sul territorio. Probabilmente anche la nomina di Nenad Rašić leader del Partito Democratico Progressista e formazione serba ostile a Belgrado nonché concorrente di Lista Srpska, abbia spaventato Vučić e scatenato le proteste.

 La mossa di Albin Kurti di posizionare un serbo del Kosovo non fedele a Belgrado potrebbe essere uno scacco matto e per Belgrado è cruciale che lo stesso scenario non si ripeta nelle amministrazioni locali finora controllate nel nord del Paese. Anche l’Italia sta cercando di ritagliarsi un ruolo decisivo per la distensione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. A fine novembre la missione diplomatica a Belgrado e Pristina dei ministri degli Esteri, Antonio Tajani, e della Difesa, Guido Crosetto ( ne avevamo parlato su ASI in politica internazionale) aveva spinto ad una ricerca e soluzione ai problemi emersi con sempre più urgenza.

Nel corso del vertice di Tirana la stessa premier Giorgia Meloni si era intrattenuta in contatti bilaterali con i presidenti Vučić e Osmani per affrontare una questione delicata per questa regione e per portare avanti il ruolo dell’Italia di amicizia e cooperazione con i partner balcanici. Con una storia così densa di avvenimenti, tra passato e presente, trovare una soluzione equa tra le parti rappresenta un fattore decisivo (considerando anche quello che si prospetterà tra Ucraina e Russia) che farà scuola per le successive e delicate controversie in campo internazionale. Con i mutamenti geopolitici in atto il rischio è quello di lasciare contrasti territoriali insoluti e che, come la storia ci insegna, pronti ad esplodere al primo pretesto disponibile.

Emilio Cassese - Agenzia Stampa Italia

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