(ASI) Nella Libia post-gheddafiana l’autunno è prodigo di interrogativi e contraddizioni.
Oltre alle foglie, nel Paese del Nord Africa sembra che questa mezza stagione abbia lasciato cadere anche le candide maschere che i ribelli indossavano qualche mese fa, durante quella che i media occidentali hanno definito “primavera araba”. Le immagini del Colonnello Muammar Gheddafi appena catturato - prima agonizzante e poi deceduto per un colpo di pistola sparatogli sulla tempia - sono le ultime sequenze visive che stampa e tv hanno proposto incessantemente all’opinione pubblica, sin troppo assuefatta al macabro. Dopodiché, la Libia è lentamente scivolata nell’oblio della dimenticanza.
Nei giorni scorsi, tuttavia, da questo buio che il silenzio dei media ha generato, sono affiorate notizie tutt’altro che rassicuranti circa il presente e il futuro del Paese libico. La morte di Gheddafi non ha costituito un punto di svolta e di affrancamento da violenze e problemi, bensì l’inizio di una spirale di faide e feroci ritorsioni che continuano a insanguinare una nazione che sembra sempre più lontana da quella condizione di pace e prosperità che incautamente i leader occidentali avevano previsto. Un rapporto che l’Onu ha consegnato lunedì scorso al Consiglio di Sicurezza proverebbe che almeno settemila prigionieri sono detenuti nelle carceri gestite dai ribelli libici, senza che nessuna corte li abbia giudicati, dal momento che un sistema giudiziario non è stato ancora ripristinato. Lo stesso rapporto testimonia la presenza, all’interno delle celle, anche di “donne e bambini”, oltre a denunciare l’uso sistematico di torture da parte delle guardie. Contestualmente a questo spietato rapporto reso noto nel Palazzo di Vetro, l’organizzazione di difesa dei diritti umani (Human Rights Watch) ha pubblicato un documento che dimostra come non solo nelle carceri la situazione è grave: per le strade delle città libiche, infatti, l’organizzazione spiega che le milizie sparano sulla gente disarmata, procedono ad arresti arbitrari ed effettuano esecuzioni sommarie. Curioso che l’intervento della Nato in Libia, avallato dall’Onu con la risoluzione 1973, si prefiggesse proprio lo scopo di “proteggere i civili”; quegli stessi civili che, oggi, a distanza di qualche mese, vengono lasciati tra le grinfie di miliziani che impunemente elargiscono odio.
Gli obiettivi di questa selvaggia caccia all’uomo sono tutti coloro che vengono tacciati di essere dei “gheddafiani”, ovvero di aver appoggiato, in qualche misura, il vecchio regime. Non importa se l’appoggio consistesse in lotta armata sotto le insegne verdi della Jamahiriya o, più semplicemente, in supporto manifestato durante quelle ultime, affollate adunate intorno a uno stanco ma strenuo Raìs. La violenza dei miliziani colpisce nella stessa misura chiunque non abbia rinnegato il proprio appoggio a Gheddafi durante le dure fasi della guerra civile. Nella città di Sirte, città natale e roccaforte del Colonnello, il rapporto Onu afferma che la gente vive nel terrore, in quanto la violenza dei miliziani accede anche nelle case private per prelevare, arrestare, talvolta anche uccidere intere famiglie. In un contesto di crudeltà fuori controllo emergono storie agghiaccianti: la politica viene spesso usata a pretesto per dar sfogo a vendette private e i più deboli diventano le prede preferite di vili aguzzini. A questa seconda categoria appartengono le tante donne libiche che hanno subito stupri dai soldati di entrambi gli schieramenti durante la guerra e che, ancora oggi, lamentano l’emarginazione cui sono relegate da una società in cui regnano caos e volgari pregiudizi verso le vittime di violenze carnali. Appare dunque evidente, a chiunque getti un’occhiata al di là della coltre di fumo delle interpretazioni partigiane dei media, che l’ennesimo intervento umanitario occidentale altro non ha fatto che dispensare scompiglio e legittimare simili abusi, in quello che fino al febbraio scorso era un Paese assai diverso da come si presenta oggi. Ossia era - pur con i suoi difetti - ricco, ordinato e sovrano.