(ASI) Nella giornata di sabato, il presidente cinese Xi Jinping ed il suo omologo statunitense Donald Trump sono tornati a parlarsi. Stavolta al telefono durante una chiamata definita cordiale dalla stampa dei due Paesi, che potrebbe finalmente riaprire gli spiragli per un nuovo periodo di confronto fra le parti. Dopo le tensioni dei mesi scorsi generate dalla decisione unilaterale dell'inquilino della Casa Bianca di aumentare le barriere tariffarie per alcune categorie di prodotti Made in China ed aggravate qualche settimana fa dall'arresto della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, in Canada su richiesta di estradizione da parte di Washington, sembra nuovamente rasserenarsi il clima sulle relazioni fra le due principali potenze mondiali.

Durante il colloquio telefonico è stata sottolineata la comune volontà dei due leader di raggiungere un accordo vantaggioso per entrambi i Paesi. Secondo quanto riportato da Xinhua, Trump ha voluto porgere a Xi e al popolo cinese gli auguri di buon anno (sebbene il Capodanno tradizionale in Cina quest'anno cada il 5 febbraio, è usanza festeggiare anche il Capodanno gregoriano la notte fra il 31 dicembre ed il primo gennaio), aggiungendo di ritenere le relazioni sino-statunitensi molto importanti ed attentamente seguite dal mondo intero. L'inquilino della Casa Bianca ha poi detto di apprezzare «i grandi rapporti col suo omologo cinese» e di essere lieto di «vedere i gruppi di lavoro di entrambi i Paesi lavorare alacremente per dare forma alla fondamentale intesa raggiunta tra i due leader» durante il vertice di Buenos Aires.

Da parte sua, anche Xi Jinping ha inviato i suoi auguri a Trump e ai cittadini statunitensi per l'arrivo del nuovo anno. Il leader asiatico ha espresso l'auspicio di poter promuovere assieme al suo interlocutore un progresso stabile per le relazioni bilaterali che, secondo quanto riferito dal presidente cinese, «si trovano ora in una fase fondamentale». Xi ha ribadito che, dopo l'ultimo confronto in Argentina, «gli staff di entrambi i Paesi sono attivamente al lavoro per concretizzare l'intesa» con l'obiettivo di «raggiungere quanto prima un accordo vantaggioso per tutte e due le nazioni e per il mondo intero». Il capo di Stato del Paese di mezzo ha inoltre ricordato che il prossimo anno segnerà il quarantesimo anniversario dell'avvio dei rapporti diplomatici fra i due Paesi.

Alla visita di Richard Nixon in Cina nel 1972, culminata nel Comunicato congiunto di Shanghai, che accoglieva la posizione di Pechino su Taiwan senza tuttavia sostenerla, seguirono infatti sette anni di incontri e trattative sino alla piena adozione della politica di 'Una sola Cina' da parte di Washington che, su decisione del presidente Jimmy Carter, nel 1979 ruppe definitivamente i rapporti con Taiwan. Come risposta alla scelta presidenziale, tuttavia, il Congresso degli Stati Uniti adottò immediatamente il Taiwan Relations Act, un documento che impegnava il governo a mantenere «legami commerciali, culturali e di altro genere» con la provincia insulare, creando le condizioni per una situazione di tensione che si trascina ancora oggi.

L'opportunismo diplomatico di Washington, che Henry Kissinger definì nei termini della cosiddetta "ambiguità costruttiva", con la fine della Guerra Fredda è diventato via via un fattore sempre più anacronistico. La Cina non è più il "gigante contadino" in lotta contro il "social-imperialismo" sovietico per la leadership del blocco comunista, ma la seconda economia mondiale, il primo attore commerciale globale, una delle principali frontiere digitali e la capofila del BRICS, assieme a Russia ed India, musa ispiratrice per quasi tutte le altre economie emergenti del pianeta. Trump e tutto il suo staff dovranno perciò soppesare con cautela ogni loro mossa e fare attenzione a non eccedere mai nelle provocazioni o nei colpi bassi. Sebbene la corda sia stata tirata abbastanza in questi due anni, la prova di forza non è mai riuscita ed il tycoon è stato costretto ogni volta a tornare sui suoi passi, accettando più miti consigli. Secondo alcuni opinionisti americani, superato senza troppi problemi lo scoglio delle elezioni di metà mandato, ora Trump potrebbe modificare in modo significativo il suo approccio nei confronti di Pechino. 

Eppure, il condizionale è d'obbligo perché, come dimostrato già in passato, il presidente statunitense è capace di ribaltare in qualsiasi momento le carte in tavola, sconvolgendo il quadro della situazione. La politica estera dell'attuale amministrazione a stelle e strisce, infatti, non segue una linea univoca e coerente. Non si tratta, come alcuni sostengono, di un atteggiamento dovuto all'inesperienza o al carattere rude ed imprevedibile del tycoon. L'andamento irregolare della diplomazia di Washington risente invece di sempre più macroscopiche divisioni all'interno dell'establishment. Ci troviamo di fronte a vere e proprie spaccature, non solo e non tanto all'interno della Casa Bianca, quanto piuttosto fra quest'ultima e lo 'Stato profondo' del Paese, trasversale o persino esterno ai partiti politici, descritto qualche anno fa dall'autore canadese Peter Dale Scott nel suo The American Deep State, tali da produrre non soltanto una serie di rimpasti in posti-chiave del Gabinetto e dell'Ufficio Esecutivo ma anche una sequela impressionante di improvvisi cambi di rotta sui principali dossier di politica estera, dalla Siria all'Ucraina, dalla Russia alla Cina, dalla Corea del Nord al Medio Oriente.

Lo scorso 30 ottobre, poche ore dopo una telefonata apparentemente cordiale con Xi Jinping, durante la quale Donald Trump aveva espresso l'auspicio di trovare una soluzione in occasione del prossimo G20, che si sarebbe tenuto di lì a breve a Buenos Aires, il Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti ha dato il via a nuovi dazi su altri marchi cinesi. A pochissimi giorni dal confronto, poi effettivamente avvenuto, a margine del vertice argentino con la conclusione di un accordo bilaterale per una tregua commerciale temporanea, in vista di nuove sessioni di dialogo fra le parti, è giunta la notizia dell'arresto di Meng. Un colpo bassissimo ma non del tutto inaspettato, viste le dichiarazioni rilasciate nel giugno scorso a Fox News dal rappresentante al Commercio Robert Lighthizer sul vero scopo di alcuni dei dazi imposti dall'amministrazione statunitense: colpire il potenziale hi-tech cinese.

Dall'altro lato, invece, c'è una Cina sostanzialmente compatta, consapevole dei propri mezzi, che ha mantenuto la sua posizione di apertura in tema di commercio e investimenti, in linea con le riforme e i cambiamenti in atto nel Paese. La trasformazione del modello di sviluppo nella fase di "nuova normalità" ha mostrato al resto del mondo un mercato più dinamico, trainato dai consumi interni e dunque orientato ad incrementare le importazioni di nuovi beni e servizi, specie dalle economie avanzate, per soddisfare le esigenze di una classe media in forte espansione. Nel quadro della competizione globale, insomma, gli Stati Uniti possono ottenere qualche vantaggio dal protezionismo nel breve termine ma hanno tutto da perdere nel medio-lungo periodo. Lo sanno bene sia Trump che Lighthizer, ma il deep state sarà dello stesso avviso?

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

 

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