(ASI) Lo scorso 6 luglio sono entrate in vigore le misure tariffarie volute da Donald Trump nei confronti della Cina. Ben 818 prodotti industriali e tecnologici cinesi, fra cui auto e componenti elettroniche, per un valore complessivo di circa 34 miliardi di dollari, d'ora in poi, si troveranno così di fronte dazi del 25% sul loro tragitto verso il territorio nordamericano. La decisione era ormai nell'aria da tempo, anche alla luce dell'intransigenza mostrata dal presidente statunitense nei confronti dell'Unione Europea. La reazione di Pechino non si è fatta attendere: sono infatti immediatamente scattate sanzioni sulle importazioni dagli States di 545 prodotti, tra cui veicoli, beni agricoli e macchinari.
Mentre l'amministrazione statunitense si prepara a scagliare una nuova offensiva all'import dalla Cina entro agosto, per un valore totale di altri 16 miliardi di dollari, e Trump minaccia ulteriori interventi sino a colpire addirittura 500 miliardi di dollari di importazioni, la Federal Reserve ha avvertito che, in caso di escalation, elevati sono i rischi per l'economia, dalle ripercussioni sugli investimenti al rincaro dei prezzi. Trump, che nel primo anno del suo mandato si era concentrato sulla riforma fiscale, ricevendo l'apprezzamento degli investitori, in questo secondo anno pare voler spingere forte su uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale: il deficit commerciale.
Molti osservatori concordano nel registrare la presenza di un forte dualismo interno alla Casa Bianca tra il rappresentante al Commercio, il "falco" Robert Lighthizer, e il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, sostenitore di una linea più morbida. L'allarme sulle presunte «pratiche scorrette cinesi» in materia di proprietà intellettuale denunciate da Lighthizer, tuttavia, nasconde un obiettivo molto più preciso. «Non possiamo ritrovarci secondi in ambito tecnologico rispetto alla Cina», aveva detto il rappresentante al Commercio ai microfoni di Fox Business lo scorso 15 giugno. Pare essere questa, insomma, la vera ragione del contendere in una fase in cui il Paese asiatico sta lavorando alacremente al programma Made in China 2025, finalizzato alla completa trasformazione digitale dell'industria e al raggiungimento di standard manifatturieri di alta qualità.
Sarebbe altrimenti inspiegabile il fatto che proprio mentre la Cina sta portando avanti una delle più grandi riforme della sua storia contemporanea, aprendo ulteriormente il suo mercato alle importazioni, semplificando oneri e burocrazia, rafforzando i meccanismi di tutela della proprietà intellettuale e migliorando il clima per gli investimenti, gli Stati Uniti decidano unilateralmente di chiudere la porta in faccia a Pechino (e ad altri Paesi asiatici), alzando barriere tariffarie una dietro l'altra.
Come ha ricordato il primo ministro singaporiano Lee Hsien Loong al Forum di Boao dell'aprile scorso, la causa di un deficit commerciale è lo squilibrio nel mercato interno e, in particolare, questo accade quando un Paese consuma più di quello che produce. L'offshoring verso Paesi con giurisdizioni più "agevoli" e costo del lavoro più basso fu, insomma, una scelta consapevole degli anni Ottanta e Novanta, non certo un'imposizione. Stati Uniti e Gran Bretagna oggi ne pagano il prezzo più alto ma giocare il ruolo delle vittime di un presunto "commercio senza regole", puntando il dito contro esportatori-top come Cina, Germania e Russia, non rende giustizia alla verità.
Eppure, Trump, senza badare troppo alla forma, assesta colpi a ripetizione verso alleati, partner o semplici interlocutori, tanto che, seppur guidato dalla stella polare dell'America First, il comportamento dell'inquilino della Casa Bianca appare ben poco lineare e spesso persino contraddittorio. Tra il novembre e il febbraio scorsi, Trump è passato dalla cordialità e dagli apprezzamenti durante la sua visita ufficiale a Pechino alla minaccia di dazi contro la Cina, per poi lanciare tra aprile e maggio una trattativa con la potenza asiatica che ha segnato passi in avanti importanti, ma che Trump ha infine fatto saltare con richieste oggettivamente inaccettabili, sino al famigerato epilogo della scorsa settimana.
Quasi nello stesso periodo, anche il modus operandi sul dossier relativo alla Corea del Nord ha lasciato spiazzata l'opinione pubblica mondiale. A maggio, dopo il terzo ed attesissimo vertice intercoreano di fine aprile tra Kim Jong-un e Moon Jae-in, Donald Trump ha prima fissato, poi cancellato e più tardi riprogrammato lo storico vertice di Singapore con il leader nordcoreano, rischiando per altro di farlo saltare nuovamente a pochi giorni dalla data prescelta. L'esito dell'incontro, giudicato positivo da entrambe le parti, consentiva a Trump, all'indomani dell'evento, di dichiarare ormai «scongiurata la minaccia nucleare», salvo poi sostenere appena dieci giorni più tardi che la Corea del Nord continuerebbe a rappresentare una «grave minaccia» per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Anche sulla Russia, il presidente statunitense si muove costantemente tra dichiarazioni di apertura nei confronti di Vladimir Putin, come la recente richiesta di un vertice chiarificatore, ed attacchi sconsiderati, come l'ultimo, giunto dal vertice NATO di Bruxelles, durante il quale ha definito il gasdotto Nord Stream 2 alla stregua di uno strumento di dominio di Mosca sulla Germania. Anche in questo caso, dunque, lo scontro commerciale in atto tra Washington e Berlino, cui non possono dirsi certo estranee nemmeno le dinamiche politiche italiane, nasconde frizioni di natura (geo)politica che probabilmente continueranno ad avvicinare Berlino a Mosca.
Così come era avvenuto con la decisione di spostare la sede diplomatica statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, che scatenò scontri e gravi incidenti, anche le continue provocazioni nei confronti del Messico hanno ottenuto un effetto inverso: dopo la recente vittoria elettorale, il presidente Andrés Manuel López Obrador, leader della sinistra patriottica di MoReNa, per la prima volta al potere, non si risparmierà nello scontro con Washington, potendo contare su una solida rete di alleanze non solo in America Latina, ma anche oltre Pacifico.
Con la Cina, l'esito di una guerra commerciale su vasta scala potrebbe essere tuttavia mille volte peggiore per gli Stati Uniti. Non c'è solo l'iniziativa Belt and Road, che procede a spron battuto con Pechino alla continua ricerca di nuove sponde in Europa (in particolare quella centro-orientale dei 16 Paesi CEECs), ma continua a farsi largo anche il progetto RCEP, il "megapartenariato" economico-commerciale nella regione Asia-Pacifico tra Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia, Nuova Zelanda e i dieci Paesi dell'ASEAN, che andrebbe ad asfaltare impietosamente l'ormai morente TPP, pensato anni fa dal tandem Obama-Clinton ed abbandonato in fretta e furia da Trump sempre per ragioni di natura commerciale.
Nel frattempo, i pareri degli inviati dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), giunti ieri a Pechino per la settima revisione delle politiche commerciali, lasciano poco spazio ai dubbi. Il rappresentante UE presso il WTO, Marc Vanheukelen, ha dichiarato senza mezzi termini che ormai ci si attende dalla Cina l'assunzione di un ruolo di leadership nel quadro del sistema commerciale multilaterale, «non solo in termini di ampia strategia, ma anche sul piano dei negoziati concreti per introdurre nuove regole necessarie». Come ha ricordato il primo ministro cinese Li Keqiang la scorsa settimana in Bulgaria, le guerre commerciali non hanno vincitori. Hanno tuttavia diversi sconfitti: il principale potrebbe essere proprio Trump.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia