(ASI) Turchia- A ogni appuntamento elettorale si parla della lotta delle opposizioni, delle svolte autoritarie del presidente, di una Turchia immersa dai conflitti economici e sociali, che dal laicismo di Kemal Ataturk, il padre della patria, sta virando velocemente verso il consolidamento di una repubblica islamica illiberale. Anche questa volta però, Recep Tayip Erdogan ha unito i suoi sostenitori sotto la propria figura e ha sbaragliato la concorrenza. Alle elezioni presidenziali e legislative del 24 giugno l'Akp, il suo partito "per la giustizia e lo sviluppo" ha conquistato 295 seggi e regalato al presidente un altro 52,6%, quindi una maggioranza solida per governare.
Soner Cagaptay, autore di un libro appena pubblicato che racconta la vita di Erdogan, descrive il suo autoritarismo come necessario, giustificando le sue scelte e repressioni politiche come unico mezzo per non perdere potere e tenere unito il Paese. In realtà di divisioni il presidente ne ha create tante, ma la sua repressione verso i giornalisti e avversari politici continua a essere graziata da un forte sostegno popolare. Ad Ankara molti sono convinti che l'identità musulmana vada difesa dagli attacchi dell'Occidente laico e miscredente, mentre il nazionalismo del proprio leader rimane la garanzia verso un futuro migliore, sempre meno minacciato da atti di ribellione come lo sventato colpo di Stato di Fetullah Gulen e dei suoi sostenitori nel luglio 2016. Dopo episodi come questo, il leader ne è uscito rafforzato, potendo approfittare di queste minacce per lanciare nuovi attacchi alle opposizioni, censurando anche la stampa avversa e i reporter stranieri.
A differenza di altre elezioni anticipate, che hanno invece punito alle urne i presidenti e primi ministri in carica, Erdogan ha trovato il terreno fertile per completare le sue riforme autoritarie, potendo così ridurre i poteri del parlamento e seguire la scia delle politiche finora adottate, smantellando il sistema laico della Turchia figlia di Ataturk, in piedi dal 1923. La maggior parte degli elettori preferisce un Paese meno libero ma più forte, al riparo dalle influenze esterne, americane, europee o medio orientali che siano. Un antico modo di pensare che risveglia le nostalgie verso l'impero ottomano scomparso circa un secolo fa.
A dispetto di tante promesse non mantenute, come una maggiore libertà per i cittadini di origine curda, l'unica riforma di apertura, verso comunque i conservatori, è stata quella di consentire alle donne di indossare il velo islamico nelle istituzioni e negli edifici pubblici, rimuovendo una storica proibizione.
L'alleato di governo dell'Akp, il partito nazionalista (Mhp) del 70enne Devlet Bahceli, promette di non cambiare la condotta politica tenuta fino a questo momento, nonostante lo stato d'emergenza chiamato da Erdogan dopo il tentato colpo di Stato possa chiudersi a breve: «Verso Curdi e minoranze non ci saranno sconti, Demirtas rimarrà in carcere». Il suo partito filocurdo ha comunque ottenuto il 12% e 67 seggi in parlamento, perfino con il proprio leader dietro le sbarre. Questa appare la realtà della nuova turchia: un Paese di divisioni e di minoranze non riconosciute, ma unito sotto il totalitarismo di Erdogan se questi continua a seguire gli interessi della nazione. Un ambiente nel quale diventa lecito calpestare i diritti, se la legittimazione del voto, pur se condizionata, rimane in piedi.
Lorenzo Nicolao - Agenzia Stampa Italia