(ASI) Il caso inglese dell’ex spia russa Sergej Skripal, condannato nel 2006 in Russia per alto tradimento, e poi merce di scambio successivo fra i governi di sua maestà la regina Elisabetta e il governo russo, continua a essere sullo sfondo delle questioni internazionali.
Ma Skripal, come Litvinenko in passato, continuano a rappresentare lo sfogo finale di una tensione internazionale che va dal mal di pancia europeo per le questioni ucraine e crimeane al conflitto siriano dove la Russia si è messa palesemente contro Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Altri casi ci sono stati infatti di spie rifugiatesi in Gran Bretagna, come Oleg Kalugin, il più noto disertore del KGB conosciuto anche dagli americani, e Oleg Gordievskij che hanno vissuto tranquillamente la loro condizione di ex spie. Allora, a parte i risultati compiuti dalle autorità britanniche, e le conclusioni a cui addiverranno, conclusioni che addirittura sembrerebbero al momento escludere che le sostanze ritrovate siano di produzione russa, bisogna certificare il fallimento dei servizi segreti inglesi e la mancata capacità di dialogare venuta meno tra Unione europea e Russia, non oggi, ma da ormai molti anni. La posizione del presidente americano Trump e la politica protezionistica che ha messo in campo, ancor più che la chiusura al dialogo con Mosca, ricompone l’asso anglo-americano e accelera i processi di demonizzazione della politica russa di Putin. Insomma, i rapporti tra Unione europea e Russia, possono oggi passare per una mediazione, allo stato attuale non chiara, della Germania della cancelliera Merkel, l’unica capace di portare al tavolo delle trattative il padrone di casa del Cremlino, anche se, l’inasprimento della crisi siriana rischia di creare un pericoloso stallo nelle relazioni internazionali. E l’Europa unita, che fine ha fatto? Ancora una volta l’Europa è rimasta alla finestra a guardare Macron, May e Trump decidere per tutti cos’era bene fare e come farlo, prim’ancora che gli ispettori delle Nazioni Unite avessero potuto confermare se Assad abbia usato o meno armi chimiche nella disastrosa guerra civile giunta al suo settimo anno. L’allargamento a est con cui i padri fondatori dell’Unione hanno voluto incoraggiare processi di inclusione garanti di stabilità e legalità, sta trasformandosi in un boomerang che rischia di travolgere tutti i popoli costretti ad accettare i diktat tedeschi e francesi, se non inglesi fino a poco tempo fa.
Quando dopo la caduta del muro di Berlino si sono spalancate le porte dell’Europa occidentale ai paesi che hanno vissuto per più di cinquant’anni all’ombra del comunismo sovietico, la Russia non è stata in grado di bloccare l’emorragia consapevole che fosse ineluttabile. Così, dal 1991 al 1999, durante l’era di Boris El’cin, l’Europa ha avviato le procedure per un allargamento a Est, consapevole comunque di andare a impattare con gli interessi geopolitici di un paese piegato in due dalla crisi economica, da un livello di inflazione altissimo e da una perduta “dignità” di superpotenza. La guerra fredda sembrava definitivamente persa e l’immagine di un paese allo sbando era testimoniata da un presidente che si presentava ai meeting internazionali in stato di imbarazzante ebbrezza. Tutto ciò ha quindi prodotto, come reazione, un forte nazionalismo che ha saputo ben cavalcare il successore di El’cin, l’ex esponente del Kgb, Vladimir Putin, lo stesso che oggi, a distanza di ben diciassette anni dal suo primo mandato, ancora è saldamente alla guida del paese. In quest’arco di tempo, in Europa sono avvenuti processi politici ed economici che hanno alterato i vecchi equilibri di un’area geografica abbastanza omogenea e al suo interno proiettata verso un allargamento che avrebbe dovuto superare lo scontro tra i blocchi est-ovest. La crisi greca, le ripetute tensioni politiche che si registrano all’interno dei Balcani, l’esplosione dei pericolosi nazionalismi in Ungheria e in Austria, ma anche in altri paesi del centro-Europa, il sentimento euroscettico di molti popoli che hanno contribuito a scrivere la storia dell’Unione, la brexit del Regno Unito e la candidatura di nuovi Stati, segnano con ogni evidenza i limiti di un’aggregazione che ha ambito alla stabilità di una vasta area del continente europeo senza però riuscire a creare coesione e benessere. Al Parlamento europeo si discute dunque la proposta di un possibile allargamento a sei paesi balcanici entro il 2025. Si tratterebbe in successione di Serbia e Montenegro per prime e poi a seguire Albania, Macedonia, Bosnia Erzegovina e Kosovo, negoziati che hanno il sapore della beffa per la Turchia di Erdogan che, come sappiamo, ha interrotto le trattative di ingresso già da tempo per via dei tanti nodi irrisolti legati ai diritti umani calpestati dal governo turco. Ma questa “apertura”, al momento, sembra avere più rischi che vantaggi in virtù di alcuni fattori che i delegati europei al momento sottovalutano e che fanno capo al sottile equilibrio sul quale si reggono i rapporti tra Stati così diversi, per cultura, per religione, per struttura politica. Non bisogna infatti dimenticare l’astio, mai sopito, derivato dalle guerre scoppiate all’indomani della deflagrazione dell’ex Jugoslavia, l’attrito serbo-kosovaro e non da ultimo gli interessi che la Russia coltiva nei confronti degli “slavi del sud” e in particolare verso la Serbia, la “parente” più stretta di Mosca sia per la sua posizione geostrategica nello scacchiere balcanico che per la sua natura slava del suo popolo. Paesi che non sono completamente usciti dalla loro fase di modernizzazione post-comunista e che stentano a ritrovare equilibri politici interni a causa della forte corruzione presente nelle istituzioni e un ritardo, che potremmo definire, congenito nella democratizzazione dell’apparato governativo. Purtroppo, in molti di questi paesi, la vecchia nomenclatura si è quasi interamente riversata nei nuovi governi spogliandosi dei panni indossati durante il regime comunista e proponendosi come “il nuovo” che avanza. Difficile, dunque, per un qualsiasi analista politico, capire lungo quale asse si spiegherà il piano strategico europeo, fermo restando che sarà quasi impossibile mettere sul piatto della bilancia il perduto peso economico inglese con le fragili e instabili economie balcaniche, la solidità politica della monarchia costituzionale di Elisabetta con gli incerti governi elitari nati all’indomani della caduta del muro di Berlino. Lo scenario che si prospetta è davvero “una formidabile incognita”! Essere euroscettici è, in questi tempi, molto più facile che non credere ancora nella possibilità che questa Europa sappia portare a termine negoziazioni efficaci e risolutive. Il problema più grande, e forse quello più palpabile, è che sin dalle guerre della ex Jugoslavia, l’Europa non ha mai espresso una politica estera univoca, non ha mai avuto un esercito comune ma ha sempre coordinato gli interventi con quello che è stato il suo partner più affidabile, almeno fino all’avvento dell’era Trump, gli Stati Uniti. Tale impossibilità di rappresentare una posizione unitaria e ampiamente condivisa in sede di scelte finali, ha portato ciascuno Stato ad affrontare le crisi internazionali secondo le proprie attitudini militari e diplomatiche e, dunque, dimostrando ancora una volta che l’Europa non è capace di esprimere all’unisono la sua voce. Nel caso siriano, tale atteggiamento ha dato modo a Putin di intervenire senza condividere con gli europei le sue scelte di sostegno a favore dell’amico, Bachar al-Assad, che la Russia ha sostenuto in maniera unipolare. Il caso siriano è emblematico del peso assunto dal leader del Cremlino in questi ultimi anni e denota un importante posizionamento della Russia nello scacchiere eurasiatico. L’asse Mosca-Istanbul-Teheran, incrinato da molti episodi che hanno messo a rischio il rapporto tra i tre paesi, rimane tutt’oggi fondamentale per le sorti della crisi siriana, ma ciò accade a discapito di un popolo che è allo stremo delle proprie forze e vessato da una guerra civile terribile che non vede la fine. A lungo andare, però, l’intervento russo a sostegno di Assad, è stato ampiamente rivalutato da tutti coloro che in un primo momento hanno invece visto l’azione di Putin come una ingerenza dannosa e inopportuna nella questione siriana. L’Unione europea, dunque, rischia di restare ancora una volta spettatore inerme e passivo in Siria, soprattutto alla luce dell’impegno assunto da Putin in tale contesto, Putin, che nonostante tutto rimane economicamente “vitale” per i governi dell’Unione. Gli avvenimenti dell’ultima ora e l’accusa americana a Mosca di aver perpetrato attacchi chimici in Siria, sembra l’ultimo capitolo del braccio di ferro anglo-americano con la Russia. Troppo presto per dire quale coinvolgimento abbia la Russia, quale peso abbia Israele, quali responsabilità abbiano gli attori che recitano a soggetto nella dilaniata Siria ma certo è che tutto ciò, oltre a far ricadere la responsabilità sul Cremlino conferma ancora una volta che la comunità internazionale ha un serio problema da risolvere, la sua anacronistica e oramai accertata irrisolutezza con un organismo l’ONU prigioniero dei suoi veti.
L’Europa è una grande realtà geopolitica e lo sarà ancora per moltissimo tempo. Un partner strategico per la Russia, un contenitore di interessi economici e politici nel quale è possibile inserirsi attraverso scelte coerenti e non dettate da esigenze contingenti. La politica estera non dovrebbe subire i ricatti economici, non dovrebbe essere suddita delle banche né essere subordinata alle diverse anime populiste che stanno generando un clima di diffidenza nei confronti della incisività delle azioni comunitarie. L’Unione europea, a mio avviso, ha toccato oggi il punto più basso della sua attrattività dal 1993, anno della sua costituzione e i motivi sono molteplici e difficilmente riassumibili nel contesto di una trattazione breve. Ma uno dei motivi che giustificano questa affermazione è senz’altro il suo aver erroneamente pensato a un’unione che da Gibilterra arrivasse sino agli Urali, inglobando quindi la Russia. Su questa base si è fatto l’errore storico di fantasticare circa un’alleanza “fraterna” per poi ritrovarsi, a conti fatti, con una Russia ostile, quasi infastidita dal corteggiamento infruttuoso dei leader occidentali. Una Russia che ribadisce la sua appartenenza al continente europeo ma una propria specificità culturale e politica alla quale non intende rinunciare. Una Russia pacifica e stabilizzata, a mio avviso, è molto più utile al progetto unitario europeo dove non mancano forti dissapori politici, crisi cicliche dei paesi coinvolti e talvolta sentimenti crescenti di antieuropeismo spesso supportati dai partiti populisti che cavalcano l’onda lunga della crisi economica che affligge l’Europa da circa dieci anni. L’Europa può tutelare i propri cittadini solo non esponendoli ai rischi di un allargamento a tutti i costi, senza regole certe né verifica dei requisiti d’ingresso. Un’Europa geograficamente più ampia non necessariamente significherà più garante e più attenta ai bisogni dei suoi cittadini. Oggi, come forse mai in passato, il vecchio continente è di fronte a sfide ben più cruciali dell’allargamento, primo fra tutti l’immigrazione e i flussi continui di uomini che arrivano dai territori devastati da guerre civili o ancor peggio dalla fame. A loro vanno date delle risposte e sulla base di queste nuove emergenze umanitarie che deve anche intavolarsi un discorso con gli aspiranti Stati balcanici, affinché si abbandonino le politiche dell’erezioni di muri e si dia più spazio alle politiche di accoglienza e di integrazione. E forse, la sfida dell’integrazione è quella più attesa nella futura Europa unita.
Francesco Randazzo - Agenzia Stampa Italia