(ASI) Secondo quanto riportato da Xinhua, mercoledì scorso, il presidente cinese Xi Jinping ha parlato al telefono con l'omologo statunitense Donald Trump, rassicurandolo sul fatto che «denuclearizzare la Penisola Coreana, salvaguardare il regime di non-proliferazione nucleare e preservare la pace e la stabilità nell'Asia Nord-Orientale rappresentano un obiettivo inamovibile della Cina».
La telefonata è giunta a poche ore di distanza dal lancio del nuovo missile balistico intercontinentale Hwasong-15, annunciato dalla Corea del Nord come il vettore in grado di colpire l'intero territorio nordamericano. Il mezzo è caduto, come di consueto, in acque giapponesi, a circa 250 km ad Ovest della Prefettura di Aomori ma si è alzato in volo ad un'altitudine di 4.000 metri, volando per poco meno di un'ora. Sono stati sufficienti questi ed altri dati tecnici per spingere Kim Jong-un ad annunciare che il Paese «è ora una potenza nucleare» e per spaventare la Casa Bianca, dopo aver ascoltato il parere degli analisti militari statunitensi.
Donald Trump ha detto proprio nella notte che «il mondo è più vicino alla guerra», chiedendo aiuto alla Cina per cercare di trovare un'ultima soluzione attraverso il dialogo. Pechino è chiaramente intenzionata a far valere la risposta pacifica alla crisi. Già in passato, la leadership cinese aveva sottolineato di opporsi con ogni mezzo ad un'escalation militare nella regione del Mar Giallo.
Il nuovo lancio del missile nucleare giunge a circa tre settimane di distanza dal tour asiatico di Trump, durante il quale il presidente degli Stati Uniti aveva dapprima raggiunto Tokyo, Seoul e Pechino, e poi Đà Nẵng (Vietnam) e Manila (Filippine), rispettivamente per i vertici generali dell'APEC e dell'ASEAN. Uno dei temi caldi affrontati dal tycoon, assieme alle note questioni commerciali, era stato proprio quello relativo alla sicurezza nucleare nella Penisola Coreana e al destino di Kim Jong-un. Nel discorso pronunciato in occasione del vertice ASEAN di Da Nang, Trump aveva sostenuto che «la regione non deve essere ostaggio delle deliranti fantasie di conquista violenta e delle minacce nucleari di un dittatore», con evidente riferimento al leader nordcoreano.
 
I partner asiatici tra timori e aperture
La reazione dei Paesi asiatici, inclusa la Corea del Sud, non è apparsa particolarmente entusiasta. Pur condividendo i timori per l'atteggiamento bellicoso della piccola repubblica a guida comunista, nessuno è chiaramente intenzionato a privilegiare l'opzione militare, che avrebbe come inevitabile conseguenza la destabilizzazione dell'intera regione ed una crisi umanitaria senza precedenti recenti in Estremo Oriente. In particolare, il presidente sudcoreano Moon Jae-in, eletto proprio nei mesi scorsi con un largo consenso, è promotore del ritorno alla Sunshine Policy, ossia alla politica del dialogo e dell'apertura (letteralmente, "della riconciliazione e della cooperazione") nei confronti di P'yŏngyang, lanciata da Kim Dae-jung alla fine degli anni Novanta.
Figlio di due rifugiati che scapparono proprio dal Nord per cercare fortuna nel più ricco Meridione della Penisola, Moon si trova ad affrontare un interlocutore come Kim Jong-un, mostratosi finora molto più ostile e diffidente del padre Kim Jong-il, rimasto in carica dal 1994 sino alla sua scomparsa avvenuta nel 2011. Tuttavia, l'obiettivo di fondo resta evidentemente il recupero di quello spirito di collaborazione, specie in chiave economica, che aveva prodotto risultati concreti come i vertici intercoreani del 2000 e del 2007, e la creazione, nel 2002, della Regione Industriale di Kaesŏng, una zona economica speciale in territorio nordcoreano lungo la fascia territoriale demilitarizzata di confine del 38° parallelo, aperta agli investimenti delle aziende sudcoreane.
Le attività produttive nell'area vengono sospese e la zona evacuata ogni qual volta si ripresenti una tensione militare tra i due Paesi ed indubbiamente i test missilistici condotti nell'ultimo anno contravvengono ad uno dei principi fondamentali della Sunshine Policy. Tuttavia, le sanzioni economiche che Washington impone da anni a P'yŏngyang impediscono alle aziende del Sud il trasferimento tecnologico necessario nel più arretrato contesto economico del Nord, creando così un ulteriore fattore di criticità.
Per quanto riguarda il Giappone, il primo ministro Shinzo Abe, il capo di governo sinora più duro nei confronti di Kim Jong-un, è solo apparentemente vicino alle posizioni di Donald Trump. Il leader conservatore nipponico, infatti, durante il vertice APEC ha affermato che «il Giappone e la Cina hanno una grande responsabilità per quanto riguarda la stabilità e della pace nella regione, così come nel resto del mondo» e che è sua intenzione «approfondire la cooperazione [con la Cina, ndt], soprattutto in riferimento alla Corea del Nord».
Abe, insomma, è perfettamente consapevole che Pechino è un partner ineludibile per risolvere la questione nucleare nordcoreana, non solo perché è storicamente più vicina a P'yŏngyang ma anche perché esprime la leadership asiatica più influente a livello internazionale. Dalla Cina, si sono regolarmente levate parole di condanna per i ripetuti test missilistici ed atomici effettuati dalle forze armate di Kim Jong-un, muovendosi per altro nei mesi scorsi con misure via via più concrete come il divieto di importare carbone, ferro e prodotti ittici dalla Corea del Nord, in ottemperanza alle risoluzioni n. 2371 e n. 2375 adottate rispettivamente il 5 agosto e l'11 settembre dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
 
Pechino agirà nel quadro regionale
La Cina ha sempre preteso che il senso di responsabilità fosse condiviso e mantenuto da tutti i Paesi coinvolti in questo composito "fronte di pressione" sulla Corea del Nord, cui aderisce anche la Russia. La visita di Trump a Pechino pare aver definitivamente messo alle spalle i toni minacciosi che il tycoon aveva usato in campagna elettorale verso la Cina per il deficit commerciale accumulato dagli Stati Uniti negli ultimi anni. «Non voglio accusare la Cina», aveva detto Trump alla platea di funzionari e imprenditori cinesi giunti ad ascoltarlo, bensì «la precedente amministrazione americana», incapace - secondo l'inquilino della Casa Bianca - di gestire e tenere sotto controllo gli equilibri commerciali tra le due potenze.
Rispetto a quello positivo ma ancora "acerbo" tenutosi a Mar-a-Lago (Florida) in aprile, il vertice Xi-Trump di Pechino ha dunque segnato una vera svolta anche per quanto riguarda la questione nordcoreana. In questo quadro di progressivo miglioramento dei rapporti sino-statunitensi, va letta la telefonata di ieri, durante la quale il presidente cinese ha comunicato al suo omologo nordamericano di voler «proseguire i colloqui con gli Stati Uniti e tutte le altre parti coinvolte» ma anche «incanalare la questione nucleare verso la direzione di una soluzione pacifica ricorrendo al dialogo e ai negoziati». La Cina, infatti, se si è mostrata pronta a condannare la condotta aggressiva di Kim Jong-un, non ha esitato ad invitare anche Washington alla calma e ad abbassare i toni quando lo ha ritenuto necessario.
Sebbene la minaccia annunciata a più riprese dalla Corea del Nord sia rivolta verso gli Stati Uniti, è chiaro che la questione vada anzitutto ricondotta al contesto regionale perché è in quel perimetro che un'eventuale e disastroso conflitto avrebbe luogo. Il risentimento antiamericano di P'yŏngyang non nasce certo con Kim Jong-un ma ha radici lontane e ancora dolorose. Le ferite della Guerra di Corea del 1950-'53, drammatico "antipasto" della Guerra in Vietnam, non si sono mai pienamente rimarginate e la massiccia presenza militare statunitense nel Sud della Penisola Coreana, che di fatto si protrae ininterrottamente proprio da allora, non aiuta certamente a rasserenare il clima.
Il vertice ASEAN+3 appare, almeno in prima istanza, la sede più idonea a trattare per ora il problema in maniera distaccata ed imparziale, coinvolgendo le dieci nazioni associate del Sud-est asiatico, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud, ossia i Paesi della regione Asia-Pacifico geograficamente più vicini al teatro di crisi. A questi va aggiunta la Russia che, assieme alla Cina e alla Corea del Sud, è l'unico Stato confinante con la Corea del Nord.
Il 16° vertice tra i capi di governo dei Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), che riunisce Cina, Russia, Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, India e Pakistan in tema di sicurezza e cooperazione, è iniziato proprio oggi nella città russa di Sochi. Il primo ministro cinese Li Keqiang ha già avuto modo di incontrare sia il suo omologo russo Dmitrj Medvedev che Vladimir Putin. La questione nordcoreana sarà presumibilmente uno dei temi sul tavolo.
 
 
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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