(ASI) Con gli annunci del presidente Xi Jinping e, più nel dettaglio, con la pubblicazione del 13° Piano Quinquennale di Sviluppo Socio-Economico, la riforma lanciata in Cina ha assunto una sua piena consistenza. Proprio martedì scorso, Xi ha chiesto alla classe dirigente sforzi più incisivi verso la realizzazione delle riforme a tutti i livelli.
La "nuova normalità" cinese, col PIL nella forbice tra 6,5% e 7% dopo anni di crescita a doppia cifra, il rallentamento globale, con gli Stati Uniti fermi a circa il 3%, l'Unione Europea e il Giappone intorno all'1%, e i vari fattori di instabilità emersi sui mercati finanziari hanno generato allarmi e preoccupazioni, convincendo diversi osservatori che fosse proprio la Cina il punto di origine della nuova crisi internazionale. In realtà, i dati dell'economia reale stavano già evidenziando le concause di un notevole sconvolgimento: il calo della domanda europea aveva portato la Cina a programmare il taglio dell'overcapacity in diversi settori manifatturieri, mentre il crollo del prezzo del petrolio aveva messo in seria difficoltà colossi come Russia e Brasile, costringendo contemporaneamente i Paesi del Golfo ad emettere importanti quantitativi di obbligazioni per compensare le perdite.
Come indirettamente confermato anche dalle stime del Fondo Monetario Internazionale, è stata proprio la Cina l'unica potenza, in questa fase di empasse globale, ad aver preso il toro per le corna, lanciando definitivamente la riforma su cui stava lavorando da tempo ed agganciandola al "Sogno Cinese", l'obiettivo del rinnovamento della nazione annunciato dal presidente Xi Jinping nel 2013. La riforma è fondata sui cinque concetti generali dell'innovazione, della coordinazione, del verde, dell'apertura e della condivisione. Tuttavia, come sostenuto dall'economista sino-statunitense Zhao Yao nel corso di un'intervista a Xinhua del maggio scorso, può essere sintetizzata dall'immagine del doppio binario: «uno volto a migliorare la produttività delle aziende cinesi e l'altro ad essere altamente competitivi nel mercato globale».
Quella cinese è una vera e propria riforma strutturale dell'offerta - supply-side secondo la definizione anglofona - pensata per stimolare i consumi, non incentivando la domanda bensì favorendo l'incremento della qualità e della convenienza dei beni e dei servizi attraverso la riduzione dell'imposizione fiscale sulla produzione. Negli anni Ottanta, tale politica fu uno dei cardini della reaganomics, oggi diventa un pilastro della riforma economica cinese. Aggiunge Zhao: «La Cina sta producendo tantissimo, ma la sua popolazione non sta comprando altrettanto. La discrepanza tra offerta e domanda è un grosso problema per l'economia. In ogni caso, la riforma dell'offerta ci viene in aiuto per risolverlo». Non si tratta, in effetti, di un problema legato al potere d'acquisto, dal momento che nel 2015 il reddito disponibile è aumentato del 7,4% e i depositi bancari dell'8,5%, mentre l'inflazione è rimasta ferma all'1,4%. La ragione di questa discrepanza tra domanda e offerta risiede, al contrario, nella catena del valore ed è proprio sull'aumento della qualità di beni e servizi che Pechino si sta concentrando.
La riforma, più in generale, contiene passaggi fondamentali per il futuro prossimo del Paese: l'innovazione tecnologica e logistica 4.0 (smart factory, Internet of things ecc. ...), la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e l'acquisizione di nuove e più avanzate competenze nei settori di punta del terziario. Stando ai dati ufficiali diffusi a gennaio dal Tesoro cinese, nel 2015 il governo ha tagliato un volume fiscale complessivo di 40,3 miliardi di euro (300 miliardi di yuan) per favorire l'imprenditorialità di massa e l'innovazione. Di questi, 13,4 miliardi di euro hanno riguardato esenzioni e agevolazioni fiscali in favore delle piccole imprese, mentre 18,8 miliardi è stato l'ammontare complessivo dei tagli finalizzati a stimolare i settori hi-tech. Allo stesso tempo, la macchina della pubblica amministrazione cinese si semplifica, snellendo la mole di pratiche e documentazioni a vantaggio delle attività private.
Queste misure hanno il duplice obiettivo dichiarato di creare nuovi posti di lavoro e migliorare l'insieme di competenze, rivitalizzando così un'economia che l'anno scorso ha subito colpi non gravi ma comunque duri. Sarà il G20 di Hangzhou, al via in questo fine settimana, a segnare una congiuntura, non soltanto simbolica, tra il piano di riforma cinese e i piani internazionali di ripresa che le prime venti economie al mondo dovranno definire da qui ai prossimi anni per evitare un pericolosa stagnazione globale e favorire la crescita in modo più deciso e stabile.
Come dimostrato dalle politiche adottate dalla BCE negli ultimi diciotto mesi, interventi pubblici di stimolo come il quantitative easing presentano oramai tutti i loro limiti, riproponendo, di fatto, un approccio keynesiano che, se non può essere del tutto abbandonato, va comunque rivisto e aggiornato al XXI secolo. Gli sforzi compiuti nel 2015 da Mario Draghi hanno alzato soltanto di poco l'asticella della crescita in Europa e al duro prezzo di una reiterata svalutazione dell'euro, ben poco competitiva e di gran lunga superiore a quella operata in poco tempo dalla banca centrale cinese l'estate scorsa.
Dopo molti anni caratterizzati dal forte sostegno alle grandi aziende statali, veri e propri colossi nei principali settori strategici - energia, agricoltura, siderurgia, chimica, trasporti, telecomunicazioni, finanza ecc. ... - Pechino ora vuole procede più speditamente verso una ponderata liberalizzazione del sistema, che punti ad aumentare il carattere misto dell'economia cinese. Da un lato, come visto, l'imprenditorialità diventa diffusa, «di massa», mentre dall'altro lato l'imponente comparto statale si riorienta attraverso formule - ancora da definire con precisione a seconda dei casi - di compartecipazione tra pubblico e privato. Come riportato martedì scorso da Xinhua, la classe dirigente cinese ha promesso di ridurre in modo significativo il ruolo del governo nel processo di allocazione diretta delle risorse, rafforzando i meccanismi di protezione della proprietà intellettuale, vero e proprio check-point per il proseguimento del cammino riformista. Tutto questo risponde a tre obiettivi fondamentali:
1. Aumentare il peso del ruolo svolto dal mercato nel processo di allocazione delle risorse;
2. Sostenere la PMI innovativa come nuova forza-motrice dello sviluppo economico;
3. Contenere e ridurre il debito pubblico, oggi pari al 43,9% del PIL, ma cresciuto quasi del 9% negli ultimi sei anni.
Secondo le intenzioni del governo, inoltre, sarà fatto di più per incoraggiare gli investitori privati ad esplorare le opportunità nei settori eco-sostenibili, nel tentativo di armonizzare tra loro le direttrici dell'apertura, dell'innovazione e del verde, cioè almeno tre delle cinque parole d'ordine della riforma. Ad unire la condivisione e la coordinazione penseranno, invece, le misure intraprese per la riduzione della povertà nelle aree rurali e nelle regioni occidentali del Paese, dove piani-pilota di investimento e progetti di riqualificazione dovranno costituire un solido terreno di crescita e sviluppo. Al contempo, la leadership cinese sta affrontando anche una generale riforma del welfare, a partire dall'estensione universale completa della copertura sanitaria, per arrivare ad edificare definitive piattaforme di assistenza alle categorie deboli (anziani, donne incinte, bambini e disabili) e di previdenza sociale.
Senza alcuna preclusione, il Partito Comunista Cinese continua dunque a servirsi pragmaticamente di intuizioni e approcci che in Occidente, ormai da decenni, siamo soliti incasellare sotto etichette politiche diverse, quando non addirittura antitetiche. Già in parte messo in discussione da un modello di sviluppo come quello della piccola città-Stato di Singapore, questo nostro ordine di idee, che è culturale prima che economico, potrebbe essere definitivamente sconvolto e superato dallo spirito riformatore di Deng Xiaoping, che ancora guida la Cina nel suo cammino verso la prosperità popolare.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia