Erdoğan da Putin: niente di determinante ma l'Europa è congelata

5773b143c4618877528b45a8  (ASI) L'incontro di San Pietroburgo tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan del 9 agosto scorso è ormai andato in archivio e si è concluso sotto gli auspici di una normalizzazione delle relazioni russo-turche, passo determinante per la ripresa del commercio bilaterale e dei piani di cooperazione, in particolare nei settori del gas, del nucleare e del turismo.

Pochi giorni prima del vertice, la stampa internazionale aveva descritto l'imminente visita di Erdoğan in Russia come una potenziale svolta di impatto globale. La situazione ancora tesa in Ucraina ed il giro di vite compiuto da Erdoğan nei suoi apparati istituzionali dopo il tentato colpo di Stato di luglio avevano posizionato sia il leader del Cremlino che il presidente turco in un terreno di comune ostilità verso l'Europa. Più che sugli Stati Uniti o su Israele, Paesi che Erdoğan ha affermato essere al suo fianco dopo il fallito blitz dei militari golpisti, il leader anatolico ha infatti cominciato a puntare sempre di più il dito contro i principali Paesi del nostro continente, a cominciare da Francia e Germania.

Stati Uniti e Israele per ora tranquilli, Europa molto meno

Washington è, almeno per ragioni strettamente geografiche, immune alle grandi ondate migratorie provenienti dall'Africa e dal Vicino e Medio Oriente. Barack Obama, forte delle tradizionali alleanze con l'Arabia Saudita e il Qatar, ha potuto procedere, senza correre grossi pericoli, nella sua strategia di sostegno all'ascesa dell'Islam politico nel corso degli ultimi anni, inserendosi direttamente nel contesto libico e in quello siriano ed indirettamente in quello egiziano, fornendo, almeno per un anno, un sostegno determinante all'ex presidente Mohamed Morsi e alla Fratellanza Musulmana. Piombata la Libia nel caos e fallito il protagonismo sunnita in buona parte del Nord Africa e del Medio Oriente, la Casa Bianca ha poi corretto notevolmente il tiro, decidendo tranquillamente di riaprire all'Iran con la sospensione delle sanzioni.

Tel Aviv, dal canto suo, forte di un potenziale militare ineguagliato nella regione, ha potuto permettersi di isolarsi completamente dal contesto circostante sin dallo scoppio delle cosiddette "primavere arabe", lasciando tatticamente che questa vera e propria "guerra civile" interna al mondo islamico facesse il suo corso, senza interessarsi più di tanto di quanto accadeva fuori dai propri confini. Anche di fronte alla drammatica avanzata dell'ISIS, lo scorso anno Netanyahu sembrò anteporre gli interessi nazionali a tutto il resto, chiedendo a Putin la garanzia che il sostegno all'esercito regolare di Bashar al-Assad e agli alleati libanesi di Hezbollah sul campo di battaglia siriano non espandesse le loro rispettive capacità di manovra ai territori contesi nelle alture del Golan e nelle Fattorie di Sheb'a.

Al contrario, l'Europa, rimasta incastrata in un'acritica rincorsa alle mosse decise oltre Atlantico, si trova oggi in grandissima difficoltà. Assecondare la strategia espansionista di Erdoğan in Siria è stato un grave errore, anzitutto perché si è presunto che l'obiettivo di porre rimedio alla crisi siriana in atto potesse coincidere con le intenzioni, in verità puramente egemoniche, di Ankara. Allo stesso modo, si deve riconoscere il fallimento europeo, ed in particolare tedesco, nell'aver voluto puntare tutte le proprie carte su una leadership ucraina completamente inaffidabile, del tutto disinteressata alla realizzazione degli Accordi di Minsk poiché di fatto assolutamente contraria a concedere lo status autonomo alle regioni filo-russe di Donetsk e Lugansk, ma soltanto piena di rancore nei confronti della Russia, in certi casi addirittura frutto di vecchie e pericolose connivenze politiche risalenti ai tempi della militanza clandestina antisovietica durante l'Operazione Barbarossa e, più avanti, durante la Guerra Fredda.

Appaiono, così, amarissime le immagini recentemente pubblicate dalla BBC, che ritraggono mezzi militari britannici da tempo in servizio di supporto ai ribelli anti-Assad. Il taglio generale impresso dai media mainstream d'Oltremanica è quello di un esercito reale in lotta anche contro l'ISIS, eppure è ormai arcinoto che tra le fazioni armate ritenute estranee al sedicente Califfato si annidano sigle magari di diverso orientamento ideologico pur tuttavia altrettanto estremiste e radicali, come Jabhat Fateh al-Sham - cioè la vecchia al-Nusra dopo la recente fuoriuscita da al-Qaeda ed il cambio di etichetta - Ajnad al-Sham, Ahrar al-Sham, Jaysh al-Sunna e molte altre che, seminando morte e distruzione, nel corso degli ultimi cinque anni sono state neutralizzate, oppure si sono sciolte per ricomparire sotto altri nomi e formazioni.

Il pericolo di un capo ferito e rabbioso

Le reazioni politiche e le manifestazioni plebiscitarie pro-Erdoğan esplose subito dopo il fallito golpe hanno spaventato a tal punto l'Europa che, mettendo da parte sospetti e dietrologie, se c'è qualcuno che avrebbe avuto più di un vantaggio dalla caduta del presidente turco questo era proprio il Vecchio Continente. L'ideologia dell'AKP, infatti, non è più solo il frutto di un'attenta opera di recupero e attualizzazione dell'eredità politica di Necmettin Erbakan o una sistematica summa ispirata alla sintesi turco-islamica affermatasi in Turchia negli Ottanta come tentativo di riconciliazione tra laici e conservatori, dopo le violenze e le tensioni degli anni precedenti.

La "profondità strategica" pensata molti anni fa dall'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu si dipanava proprio lungo le due direttrici strategiche di matrice rispettivamente religiosa ed etnica, con l'obiettivo di ricostruire un grande Turchia, moderna ed economicamente avanzata ma al contempo capace di esercitare un ruolo di riferimento tanto nella sfera d'influenza islamica "post-ottomana", dal Marocco alla Bosnia, quanto nel plesso turcofono compreso tra il Caucaso e l'Asia Centrale. Ora, con un Erdoğan ferito e rabbioso, la leadership turca rischia di assumere definitivamente una piega ben più conservatrice, capace di riunire ambienti islamisti e ambienti panturchisti in una pericolosa convergenza che, al sempre più costante richiamo alla "grandezza imperiale ottomana", mescola mitologie turaniche che si pensavano limitate a qualche nostalgico dei vecchi lupi grigi, formazione paramilitare ultranazionalista fondata negli anni Sessanta dal colonnello Alparslan Türkeş.

In Siria, ad esempio, questa "unità" è già attiva da tempo sotto l'egida del Partito Islamico del Turkestan, noto anche come Movimento Islamico del Turkestan Orientale (ETIM, secondo l'acronimo anglosassone), sospettato da Damasco di essere direttamente supportato dai servizi segreti turchi del MIT. Dall'inizio degli anni Novanta, l'ETIM recluta e addestra jihadisti in Asia Centrale e nella regione cinese dello Xinjiang, dove si concentra la minoranza turcofona e musulmana degli uiguri. Proprio al separatismo uiguro - che ha più volte insanguinato non solo la Cina ma anche il vicino Kirghizistan - facevano esplicito riferimento le bandiere azzurre con mezzaluna e stella bianche, comparse numerose, assieme alle tantissime bandiere turche, in piazza ad Istanbul nell'ultima oceanica manifestazione organizzata dal governo come prova di forza dinnanzi alle tv di tutto il mondo. Fonti russe, tuttavia, riportavano nel dicembre 2015 la presenza di circa 700 nuovi lupi grigi turchi anche nella regione meridionale ucraina di Kherson, resisi responsabili di attacchi ai civili e pronti ad intervenire in Crimea in difesa della locale comunità tatara.

La menzione, reiterata e quasi ossessiva, dell'imam Fethullah Gülen, indicato quotidianamente da Erdoğan quale nemico principale della Turchia, potrebbe essere letta come un duro monito agli Stati Uniti, Paese dove il predicatore e suo ex sodale risiede in auto-esilio dal 1999. Eppure, il vero destinatario delle invettive del presidente turco pare essere proprio l'Europa. Troppo "subalterno" nei confronti del colosso nordamericano per poterlo sfidare, Erdoğan è invece perfettamente consapevole di avere in mano carte pesanti nella partita in corso con le cancellerie del Vecchio Continente: da un lato i migranti, sempre più squallidamente utilizzati come strumento minatorio nei confronti di Bruxelles e dunque, all'atto pratico, dello storico rivale greco e dell'Italia; dall'altro la diaspora turca, capace di mobilitare in suo sostegno circa 30.000 persone soltanto a Colonia lo scorso 30 luglio e chissà quante altre - non necessariamente solo turche - in altre città europee nel prossimo futuro.

Dal canto loro, Vladimir Putin ed il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov, in serata, dopo l'incontro con Erdoğan, hanno rispettivamente chiamato - quasi a volerli rassicurare - la premier britannica Theresa May, che presenzierà alle celebrazioni del prossimo 29 agosto per il 75° anniversario dell'arrivo del primo convoglio alleato ad Arkhangelsk, ed il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, che raggiungerà la città russa di Ekaterinburg il prossimo 15 agosto per un incontro sui temi energetici.

La diplomazia russa, dunque, pare procedere con molta più cautela della stampa generalista, già pronta ad immaginare nuove alleanze, al momento del tutto inesistenti ed infondate. In Siria, infatti, si continua a combattere e la Turchia mantiene il suo sostegno ai ribelli, senza accennare alla benché minima intenzione di aderire al piano di riconciliazione nazionale, sotto la guida di Assad, promosso da Mosca. La cautela del Cremlino è massima perché anche in Russia, dopo l'abbattimento turco del caccia impegnato in Siria contro l'ISIS del 24 novembre scorso, nessuno è più disposto a credere ad Erdoğan sulla parola. Proprio lo stesso giorno dell'incontro con il presidente turco, la Russia ha fatto sapere di contare sul supporto della Cina e della Serbia per portare a compimento l'operazione umanitaria in corso ad Aleppo. Un segnale preciso che i principali riferimenti strategici della politica estera russa restano quelli tradizionali, sia in Asia che nei Balcani. Il nemico del proprio nemico è da considerare amico? Non sempre. Anzi, al giorno d'oggi, quasi mai.

 

 

Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia

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