(ASI) L'assalto terroristico alla Chiesa di Saint Etienne du Douvray, nella città normanna di Rouen, è solo l'ultimo di una serie impressionante di episodi criminali di matrice fondamentalista che hanno sconvolto la Francia nel corso degli ultimi venti mesi. L'assassinio a sangue freddo del parroco Jacques Hamel, sgozzato sull'altare da uno dei due attentatori con un coltello, è probabilmente il gesto più macabro finora mai messo in atto dall'estremismo jihadista in territorio europeo.
Per qualche ora nel nostro continente si è materializzata la tragedia che quasi quotidianamente le cronache sono purtroppo costrette a registrare in quei Paesi del Medio Oriente e dell'Africa dove i cristiani subiscono da molti anni attentati e persecuzioni. La città di Rouen, luogo del martirio di Giovanna D'Arco, assume un significato simbolico assoluto nel quadro di uno scontro non tra due o più forme di civiltà, ma tra quella pietas che sorregge il concetto stesso di civiltà nella sua valenza universale e la barbarie, abietta ed inumana, ostentata sino alla fine, senza scrupoli né risentimenti, da due giovanissimi seguaci dell'ISIS, nati sì in Francia ma da famiglie di origine maghrebina.
Si è ormai affermato nel lessico giornalistico il vocabolo dell'autoradicalizzazione, un fenomeno nuovo ed inquietante proprio per la difficoltà di individuarne il soggetto protagonista e per l'imprevedibilità dei tempi e dei modi secondo cui potrebbe agire. Si è spesso parlato di nuovi terroristi islamisti, pronti a raccogliere del tutto autonomamente la chiamata alle armi di al-Baghdadi. Diffuse - attraverso una rete Internet ormai alla portata di tutti anche da un semplice telefono cellulare - le coordinate e le modalità generali di organizzazione di un attentato, pare che poi ognuno agisca per conto proprio adattandole al contesto: con un camion lanciato in corsa all'impazzata sulla folla lungo la Promenade des Anglais di Nizza, con un'ascia scagliata contro i passeggeri di un treno regionale in Baviera o con la presa in ostaggio di un parroco e di alcuni suoi fedeli in una chiesa della Normandia, sotto la minaccia di alcuni coltelli e di una finta cintura esplosiva.
Come agisce il nuovo islamismo?
Dopo l'assalto alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, rivendicato da Ansar al-Sharia (al-Qaida nella Penisola Araba), e gli attacchi simultanei a Parigi nel novembre scorso, rivendicati dall'ISIS, ad opera di veri e propri commando paramilitari organizzati e coordinati, ci troviamo ora di fronte a figure terroristiche relativamente nuove nel panorama del radicalismo islamista, sprovviste di mezzi importanti ma ugualmente assetate di sangue e distruzione. Gli squilibri e le turbe psichiche riscontrate in alcuni dei più recenti attentatori giocano senz'altro un loro ruolo ma non bastano a spiegare, da sole, le ragioni delle gesta criminali compiute. Il pressappochismo con cui diversi commentatori occidentali sembrano approcciarsi ancor oggi alla questione del terrorismo rischia di aumentare il pericolo. Davanti alla dimensione pratica, dove quotidianamente operano funzionari e uomini di Stato di indubbio valore e indiscussa preparazione, c'è una dimensione "teorica", di facciata, che lancia segnali crescenti di incapacità e debolezza da parte dell'Europa nel suo complesso. In tal senso, continuare a supporre ostinatamente che la religione e l'immigrazione di massa non c'entrino nulla col terrorismo, per paura di legittimare la xenofobia, significa raccontare una verità parziale e dunque, in fin dei conti, una non-verità.
E' opportuno sbaragliare subito il campo da qualsiasi deriva ideologica dello scontro in atto, ragionando su basi quanto più scientifiche possibile. Non esiste un "mondo islamico" in guerra contro l'Occidente. Ci troviamo di fronte ad quadro di conflitto multidimensionale, dove diverse contese (geo)politiche si sovrappongono tra loro senza mai sparire di scena del tutto: siamo partiti dallo scoppio quasi simultaneo di un insieme di guerre civili durante le cosiddette "primavere arabe" tra i laici (in un'ampia accezione, diversa da quella occidentale) e gli islamisti all'interno dei Paesi a maggioranza sunnita; il conflitto si è allargato a livello regionale tra i sunniti radicali e gli sciiti; chiamate in causa le principali potenze mondiali dinnanzi al sanguinoso stallo della crisi siriana, si è giunti infine ad uno scontro aperto tra l'estremismo islamista ed i Paesi che si sono attivati, a vario livello e in vari modi, per combatterlo. Cuore del problema resta - è un dato tanto empirico quanto semplice - il territorio a cavallo tra la città siriana di Raqqah e quella irachena di Mosul, dove il sedicente Stato Islamico si è stanziato militarmente con le proprie truppe. In quest'area si concentrano oggi i raid aerei della coalizione internazionale a guida statunitense da una parte, e quelli della coalizione formata da Russia, Siria ed Iran dall'altra. Sotto le distinte egide di Obama e di Putin, si muove, ad un livello meno visibile ma concettualmente chiarissimo, lo scontro tra i Paesi del Golfo, alleati di Washington, di tradizione sunnita integralista, ed il cosiddetto Asse della Resistenza, a maggioranza sciita, composto da Iran, Iraq, Siria e Hezbollah libanesi.
Malgrado entrambi i fronti affermino di voler combattere l'ISIS, è un dato oggettivo che il sedicente Califfato sia un fungo velenoso spuntato tra le muffe della guerriglia anti-Assad, dove al-Nusra, al-Islamyyah, al-Muhajireen wal-Ansar ed altre sigle salafite, alcune ancora attive, altre neutralizzate, hanno proliferato per un periodo di tempo compreso tra i tre e i cinque anni, servendosi dell'appoggio politico e logistico in taluni casi della Turchia e in tal'altri di Arabia Saudita e Qatar. Dunque, cos'è l'ISIS? Una scheggia impazzita? Una cellula "sfuggita di mano"? Probabilmente. Tuttavia, molti degli altri gruppi ribelli che affermano di opporsi all'ISIS in Siria sono affiliati ad al-Qaeda o, comunque, condividono con al-Baghdadi un'analoga concezione estremista e settaria dell'Islam, di ispirazione wahhabita. Nel fronte dei miliziani anti-Assad, dunque, resta ben poco di estraneo all'islamismo, ad eccezione di qualche frangia del cosiddetto Esercito Libero Siriano e delle milizie curde, comunque in buona parte compromesse con le sigle dell'estremismo etnico (PKK et similia).
Cosa fare?
Insomma, è inutile girarci intorno ed arrampicarsi sugli specchi. Per districare la complicata matassa siriana, non c'è alternativa ad una riapertura completa dei rapporti con il governo siriano ed il presidente Bashar al-Assad. Prima fra tutti a prenderne atto pare essere stata la nostra intelligence che, secondo le indiscrezioni riportate da varie fonti arabe, nella prima metà di luglio avrebbe prima ospitato a Roma il generale Deeb Zeitoun, capo dell'intelligence siriana, e poi inviato a Damasco il generale Alberto Manenti, direttore del nostro AISE. Il presumibile scambio di informazioni tra Italia e Siria, oltre al forte significato politico di parziale riapertura delle relazioni diplomatiche bilaterali, interrotte del tutto nel 2011, potrebbe aver fornito ai nostri organi di sicurezza strumenti importantissimi per individuare i potenziali foreign fighters presenti sul nostro territorio nazionale.
Il niet di Matteo Renzi alle richieste giunte tra febbraio e marzo scorsi da Washington e Londra affinché l'Italia si impegnasse militarmente in Libia a sostegno del governo tripolitano di al-Serraj ha rappresentato un passaggio determinante affinché il nostro Paese, dopo il disastro del 2011, non fosse nuovamente coinvolto in una partita pericolosa e controproducente. Malgrado le dichiarazioni diplomatiche di rito, infatti, Palazzo Chigi si è di fatto rifiutato di favorire la riconquista dell'intero Paese da parte della Fratellanza Musulmana in lotta contro il governo cirenaico del generale Haftar, appoggiato dall'Egitto.
In Libia resta, però, l'enorme problema delle migrazioni. Su tale piano vanno operate delle opportune distinzioni tra i profughi effettivi, in fuga da guerre e persecuzioni, i migranti economici, che sfruttano l'apertura dei canali umanitari semplicemente per arrivare in Europa, e i pregiudicati. Tra questi ultimi, con il determinante aiuto dei governi dei Paesi di provenienza e di transito, vanno ricercati quei "corrieri del terrore" che potrebbero fare la spola dalla Libia, attraverso il Canale di Sicilia, o dalla Siria, attraverso la rotta balcanica, per entrare - o rientrare nel caso degli allogeni - in Europa dopo un periodo di addestramento nei poligoni dell'ISIS, ma anche semplicemente per trasmettere messaggi, informazioni o documenti da un capo all'altro del Mediterraneo.
Setacciate le rotte percorse da questi "falsi profughi", resta da capire il ruolo svolto da certi centri islamici o da certe moschee attivi sul nostro territorio in questa complicata rete peer-to-peer del terrorismo, dove pare essere scomparsa quasi del tutto la gerarchizzazione rigida, ramificata e transnazionale tipica di al-Qaeda per lasciare posto ai generici appelli erga omnes lanciati dal sedicente califfo al-Baghdadi e ricevibili da chiunque. Come a voler dire: «Noi stiamo costruendo le basi del nostro Stato Islamico tra Siria e Iraq, voi intanto colpite l'Occidente e gli altri Paesi infedeli come meglio potete».
Si aggiunge dunque un iter di radicalizzazione teorica (indottrinamento) e pratica (addestramento/armamento) che può attingere un po' dovunque: da una moschea di orientamento settario ad una sala giochi della periferia parigina, dalla biblioteca di qualche centro islamico ai tipici luoghi dello spaccio di stupefacenti nelle metropoli occidentali, come stazioni ferroviarie, case abbandonate o accessi sotterranei.
Cosa fare? Bisogna ovviamente ragionare, non farsi prendere dal panico né pensare che non vi sia più nulla da fare. Se sul piano internazionale sarà fondamentale accelerare il processo di riapertura dei ponti diplomatici con Damasco e con Mosca, sul piano interno il nostro Paese ha il know-how necessario ad affrontare minacce del genere. La lunga esperienza di intelligence maturata durante gli anni di piombo, la preparazione dei nostri corpi scelti nel campo dell'antiterrorismo e l'azione preventiva finora esercitata dal governo con il potenziamento del programma "Strade Sicure" sono tutti fattori che rafforzano lo scudo difensivo del nostro Paese. Sarà poi fondamentale mappare in poco tempo tutti i luoghi di culto islamici, attualmente privi di organi gerarchici superiori cui rispondere, censirne i responsabili in un apposito elenco a disposizione della magistratura e tenerli sotto controllo fin quando non sia accertata l'estraneità di ognuno alle attività terroristiche. A misura di legge, qualunque luogo di raduno in odore di proselitismo ed estremismo dovrebbe essere immediatamente chiuso, così come dovrebbero essere espulsi dall'Italia e dall'Europa i suoi affiliati se stranieri, arrestati e processati se italiani.
Infine, Bruxelles dovrà rendersi conto che Dublino III va rivisto al più presto, in modo tale che non siano Italia e Grecia a doversi fare carico, da sole, di un'accoglienza che, quand'anche fosse ancora economicamente sostenibile (e a breve potrebbe non esserlo più), presenta comunque l'inaccettabile rischio che, tra la confusione per i continui sbarchi, altri "corrieri del terrore" - ivi inclusi quelli provenienti dall'Africa sub-sahariana musulmana - possano penetrare, anche con falsi documenti, nel nostro Paese.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia