(ASI) La Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, presieduta dal giudice Ronny Abraham, si è espressa stamattina in favore delle Filippine in merito all'arbitrato avviato unilateralmente da Manila nel 2013, al fine di ottenere il riconoscimento delle proprie rivendicazioni sulle acque contese nel Mar Cinese Meridionale.
La Corte ha concluso che per la Cina «non esistono basi legali per reclamare diritti storici sulle aree marittime comprese entro la "linea dei nove trattini"», cioè la quasi intera regione del Mar Cinese Meridionale.
E' la conclusione di un percorso durato tre anni, durante i quali i toni della disputa tra Pechino e Manila si sono alzati più volte con accuse reciproche, aumentate d'intensità per effetto dell'inserimento degli Stati Uniti nella contesa. A partire dallo scorso autunno, infatti, il Pentagono aveva dato sempre più convintamente man forte all'alleato filippino, avviando un'operazione a lungo termine per garantire la libertà di navigazione sul Pacifico che ha condotto navi e velivoli da guerra nordamericani nelle acque territoriali e nello spazio aereo della Repubblica Popolare.
Il governo cinese, furioso per la vicenda, aveva ribadito più volte che la libertà di navigazione non è mai stata in discussione e che l'appello della Casa Bianca era stato soltanto un pretesto per interferire nelle dispute del Mar Cinese Meridionale. Proprio lo scorso 25 febbraio, due giorni dopo un vertice tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ed il segretario di Stato americano John Kerry, il portavoce del Ministero della Difesa cinese Wu Qian aveva osservato: «Diversi alti funzionari militari statunitensi hanno recentemente accusato la Cina di voler militarizzare il Mar Cinese Meridionale e di accrescere le tensioni [...] Eppure gli Stati Uniti hanno inviato navi e aerei da guerra in territorio cinese senza alcuna autorizzazione per svolgere compiti di pattugliamento, e alcuni Paesi stanno illegalmente occupando isole e scogliere cinesi, dispiegandovi radar e artiglieria [...] Non è questa una militarizzazione?».
Una sentenza politica?
Era il 22 gennaio del 2013 quando il Ministero degli Esteri filippino notificò all'Ambasciata cinese di Manila l'avvio dell'arbitrato conclusosi oggi, reclamando la sovranità sulle Isole Nansha (Spratly), contese non solo con la Repubblica Popolare Cinese ma anche con la Repubblica Socialista del Vietnam, con la Federazione della Malesia e col Sultanato del Brunei. Per avere ragione, Manila si era appellata all'Articolo 287 e alla VII Appendice della Convenzione ONU sul Diritto del Mare, sottoponendo il caso alla Corte di Giustizia Internazionale de L'Aja. La Cina, tuttavia, rispedì al mittente la notifica e non intese mai prendere parte all'arbitrato, non riconoscendone in alcun modo i fondamenti sul piano giuridico né su quello storico.
In base a quanto sancito dalla Dichiarazione sulla Condotta delle Parti nel Mar Cinese Meridionale, siglata tra la Cina e i Paesi ASEAN nel 2002, incluse le Filippine, la Convenzione ONU sul Diritto del Mare, pur considerata un riferimento importante a livello generale, viene subordinata alle consultazioni amichevoli e ai negoziati tra le parti in causa. Secondo Pechino, inoltre, circa l'80% delle acque del Mar Cinese Meridionale appartengono alla Cina su basi storiche. Al di là del nome geografico, che richiama evidentemente un'antica sovranità esercitata in modo costante su quei territori marittimi, secondo la documentazione storica ufficiale internazionalmente riconosciuta, le attività cinesi in queste acque risalgono ad oltre duemila anni fa. Nel Libro Bianco sulla Questione della Giurisdizione nel Mar Cinese Meridionale, pubblicato dal governo di Pechino il 7 dicembre 2014, si sostiene chiaramente che «la Cina fu il primo Paese a scoprire, nominare, esplorare le isole del Mar Cinese Meridionale e a sfruttarne le risorse, ed il primo Stato ad esercitare una costante sovranità su di esse».
Fermo restando che per la storia geografica mondiale non esiste alcun "Mare Occidentale delle Filippine", come invece reclamato da alcuni movimenti nazionalisti e, sebbene più velatamente, anche dallo stesso ex presidente Benigno Aquino III, la Cina, non avendo preso parte all'arbitrato, non ha nemmeno avuto modo di far valere le proprie ragioni in sede di giudizio. La Corte dell'Aja, dunque, ha svolto un ruolo improprio rispetto a ciò che si intende per "arbitrato" nel diritto comune, cioè l'affidamento della controversia in essere ad un soggetto terzo tra due parti contendenti che, attraverso una clausola compromissoria, accettano di affidarvisi. La stessa VII Appendice della Convenzione ONU sul Diritto del Mare, malgrado dia la possibilità di richiedere unilateralmente l'arbitrato, privilegia - citandolo più volte - l'accordo tra le parti nella procedura di formazione e composizione della corte chiamata a decidere. La Cina non mai partecipato all'arbitrato, ritenendolo sin dall'inizio uno strumento non idoneo a risolvere la disputa e non è obbligata a rispettare una sentenza che scavalca accordi regionali già sottoscritti tra le parti e nega le più elementari evidenze storico-geografiche. Perché quest'insistenza proprio mentre Manila, con il cambio al vertice, mostrava un atteggiamento molto più conciliante nei confronti di Pechino? Non è interesse delle corti internazionali quello di favorire il dialogo e la consultazione amichevole tra due Paesi contendenti?
Con Duterte la distensione è quasi certa
I moniti lanciati da Barack Obama alla Cina affinché evitasse «la militarizzazione del Mar Cinese Meridionale», durante il vertice APEC dell'ottobre 2015, e «non maltrattasse i Paesi più piccoli», durante la sua visita in Vietnam nel maggio scorso, hanno contribuito ad innervosire ancora di più Pechino che, da par suo, non potrà che percepire la sentenza della Corte dell'Aja come un atto di provocazione politica.
Terminate proprio ieri, le ultime esercitazioni navali cinesi nell'area compresa tra i due principali arcipelaghi contesi (Nansha e Xisha) hanno messo in chiaro, a pochi giorni dalla sentenza, che la Cina non intende retrocedere di un millimetro sulle proprie volontà. Le operazioni di drenaggio per consentire la costruzione di avamposti artificiali andranno avanti, così come la messa in sicurezza dell'area e le esplorazioni dei fondali. La strategia cinese prevede che entro il 2020 il Paese consolidi definitivamente la propria capacità di controllo e sorveglianza sulle aree marittime delimitate dalle due catene insulari disegnate negli anni Ottanta dall'Ammiraglio Liu Huaqing. La prima fu tracciata lungo la linea immaginaria transitante per le Isole Ryūkyū settentrionali, Okinawa, Taiwan, le Filippine settentrionali, il Brunei e le coste del Vietnam meridionale. La seconda, invece, lungo una linea immaginaria più distante dalle coste nazionali, in transito per il Golfo di Tokyo, l'Isola di Guam, le Isole Palau e la provincia indonesiana della Papua Occidentale.
Ciò che probabilmente fa riflettere più di ogni altro aspetto è che questa sentenza sia arrivata a poche settimane dal voto presidenziale filippino dello scorso 9 maggio, che ha sancito la vittoria dell'ex sindaco di Davao, Rodrigo Duterte - espressione del socialdemocratico PDP-Laban - personaggio giudicato controverso in Occidente per il suo atteggiamento distante dal politically correct e per i suoi metodi spicci e ben poco concilianti nei confronti della criminalità e del narcotraffico. Duterte aveva già anticipato di voler tendere un braccio a Pechino, cercando una soluzione comune e mostrando come il suo fervente patriottismo sia perfettamente in grado di conciliarsi con un approccio distensivo che privilegi i rapporti amichevoli con la Cina, un obiettivo di politica estera ormai imprescindibile per i Paesi del Sud-est asiatico, tutti in ottimi affari con Pechino.
La sentenza, dunque, rischia paradossalmente di trasformarsi in una patata bollente proprio per Manila, chiamata a gestire una "vittoria" molto scomoda, ottenuta al termine di un arbitrato avviato dal predecessore Aquino III, contro il quale il PDP-Laban aveva imbastito una durissima campagna elettorale. Sarà proprio Duterte l'ago della bilancia di questa delicatissima situazione. Chiamato ad evitare che la sentenza e le conseguenti pressioni di Washington rischino di trasformare il Mar Cinese Meridionale in un campo di battaglia, il presidente filippino dovrà bilanciare gli interessi nazionali immediati con quelli di medio-lungo termine. Mettersi contro la Cina non conviene a nessuno.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia