(ASI) – La sorprendente annata delle primarie Usa 2016 non è mai stata avara di colpi di scena, ma quello di New York potrebbe davvero costituire il punto di svolta di questa stagione elettorale.
Come ampiamente previsto dai sondaggi Hillary ha vinto in casa democratica sul rivale Sanders, mentre in casa repubblicana, a dispetto anche di alcuni sondaggi commissionati da ambienti vicini alla leadership di partito, ha trionfato Donald Trump. Fin qui nulla di inaspettato dunque, non fosse per due dati sorprendenti. Da una parte il fatto che tutti i pronostici che davano per scontata la nomination nei rispettivi schieramenti dei candidati alle presidenziali ben prima dell’appuntamento newyorkese, sono stati sfatati poiché, seppur vincitori, ne Trump, ne Hillary hanno ancora ottenuto le rispettive nomination. Dall’altra parte vi sono le percentuali del trionfo dei due vincitori di New York. Seppur la vittoria di Hillary e Trump fosse stata ampiamente pronosticata, ciò che ha lasciato spiazzati praticamente tutti gli “addetti ai lavori” della politica sono il fulgido 58% di Hillary e il devastante, per la leadership repubblicana, 60% di Donald Trump.
Da una parte si scommetteva su una vittoria per pochi punti, considerando la realtà cosmopolita ed intellettuale newyorkese, che nei pronostici avrebbe dovuto consentire a Bernie Sanders di non accusare un eccessivo distacco dalla Clinton. Quest’ultima invece non solo ha incassato il voto degli afroamericani, delle minoranze etniche e dei super ortodossi del partito, ma addirittura ha eroso il bacino elettorale del governatore del Vermont. Quest’ultimo, figlio di immigrati polacchi, pur giocando in casa, nella New York che l’aveva visto crescere, per la prima volta non ha ottenuto la maggioranza di nessuna frangia di votanti. Sanders non è dunque riuscito a spaccare l’elettorato democratico come accaduto sempre nel corso delle primarie 2016. Al contrario Hillary ha alleggerito il governatore del Vermont dei preziosi voti di giovani, ex-ceto medio e perfino degli intellettuali più di sinistra della Grande Mela. Questa nuova ed inedita trasversalità di Hillary Clinton ha consentito all’Ex Segretaria di Stato di giungere praticamente ad un passo dalla nomination democratica. E Hillary infatti ha già iniziato a ragionare in chiave elettorale per le presidenziali d’autunno chiedendo, durante il comizio post elettorale, la riappacificazione al rivale Sanders. Il messaggio della Clinton all’elettorato di Sanders è stato chiaro :”sono più le cose che ci accomunano di quelle che ci dividono”. Al di la del tono da statista lungimirante e da donna benevola, quello della Clinton a Sanders, più che essere un ramoscello d’ulivo, sembra più simile ad un cespuglio di rovi in cui annichilire il governatore del Vermont. Il tono pacato e riunificatore, unito alla nuova trasversalità di Hillary, potrebbero rischiare infatti di portare alla sconfitta Sanders con percentuali da prefisso telefonico. Politicamente parlando l’ex-Segretaria di Stato non ha fatto altro che chiedere, in maniera neanche tanto velata, il ritiro dell’avversario o la convergenza dei voti in caso di rifiuto di tale proposta politicamente corretta. Deve averlo intuito il governatore del Vermont, che infatti ha rispedito l’offerta al mittente, passando all’attacco denunciando brogli elettorali alle primarie democratiche. Secondo il governatore del Vermont vi sarebbero infatti “notizie di irregolarità diffuse in molti seggi che sono sempre andate a vantaggio della stessa persona”. Ovviamente il riferimento va ad Hillary Clinton. Non sono solo i presunti brogli, ma anche le regole delle primarie newyorkesi sono finite al centro dell’offensiva di Sanders. Secondo quest’ultimo, il meccanismo di partecipazione legata all’iscrizione dell’elettore almeno sei mesi prima del voto, avrebbe lasciato fuori molti elettori che mesi fa erano indecisi, o disaffezionati. Alla luce dell’oggettivo successo di pubblico delle primarie proprio tra queste categorie, i potenziali elettori “riaffezionati” si sarebbero ritrovati privi dell’opportunità di esprimere il proprio voto. Secondo Sanders tale il meccanismo dell’iscrizione sarebbe anche la spiegazione dell’inedito successo trasversale di Hillary Clinton.
Se Hillary ha vinto, Trump ha trionfato. La fulgida vittoria del magnate newyorkese ha infatti sbaragliato la concorrenza di Ted Cruz e John Kasich le cui percentuali, rispettivamente il 26% e il 14%, hanno finito con l’essere niente più che una mera nota a margine del trionfo di Trump. Quest’ultimo si è detto “sorpreso”. Il 60% che ha consegnato la vittoria nella Grande Mela al Tycoon che giocava in casa, ha spiazzato tutti. Addirittura nei seggi del Queens, a Brooklyn e Long Island il magnate immobiliarista si è aggiudicato la vittoria con percentuali che si aggirano intorno al 70%. La vittoria, necessaria per invertire la percezione di una campagna che andava affievolendosi, si è dunque trasformata quasi in un incoronazione per Donald Trump. Dopo i deludenti risultati del Colorado e del Wisconsin, che avevano visto l’affermazione di Cruz, e intense settimane di attacchi alla moglie del magnate newyorkese per il suo passato “chiacchierato”, Trump necessitava di una vittoria per impedire che la sua candidatura iniziasse a venir percepita come debole. A questo punto, forte cioè di un successo che lo ha portato ad un passo dalla nomination repubblicana, l’unica preoccupazione per il magnate newyorkese potrebbe venire dai sempre meno probabili giochi di potere in seno al partito repubblicano. La leadership del partito non ha infatti mancato di esprimere ancora una volta il proprio disappunto per l’andamento delle primarie, e la propria antipatia per Trump. Però certo è che di fronte a percentuali di consenso talmente ampie, i giochi di potere interni rischiano concretamente di trasformarsi in una tomba politica per l’intero partito e in special modo per la propria leadership. Sarebbe in sostanza una fine stile “muoia Sansone e tutti i filistei”. Al di la del riferimento biblico, è indubbio che far convergere i voti dei delegati su un solo nome, qualunque esso sia, rappresenterebbe un voto contro l’America repubblicana. A credere ancora fermamente in questa soluzione è ormai solo Ted Cruz. L’ex “impresentabile”, divenuto più gradito alla leadership in seguito al successo dell’ancor più “impresentabile” Trump, anche questa volta è tornato a chiedere la convergenza di tutti i voti dei delegati sulla propria candidatura. Ma ormai Cruz sembra essere sempre più una voce isolata. Sostenuto solo dagli ultra evangelici e dagli ormai pochi repubblicani fedeli all’ortodossia del partito, Cruz pare condannato alla sconfitta, ruolo cui per altro la stessa leadership lo aveva “predestinato” in favore di altri, prima che il “ciclone Trump” scompaginasse le carte in tavola.
Alexandru Rares Cenusa – Agenzia Stampa Italia