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Panarbismo e le rivolte in Nord Africa
(ASI) La crisi Libica e i successi delle rivolte in Egitto e Tunisia segnano un punto di svolta decisivo nella storia araba, musulmana ed anche occidentale. Per il mondo arabo la caduta dei regimi cleptocratici in Egitto e Tunisia è una ventata di freschezza in un ambiente politico e sociale asfittico.

Indubbiamente Internet è stato uno strumento fondamentale nelle proteste poiché ha esponenzialmente accelerato la velocità con cui l'onda araba si è abbattuta sui tiranni ma non spiega, se non in piccolissima parte, perché i germi libertari hanno infettato l'intero Medio Oriente. La causa del contagio è il fortissimo spirito di appartenenza delle popolazioni autoctone al mondo arabo-musulmano: questo senso di appartenenza, radicato nella cultura e nella politica araba, è storicamente riscontrabile nella storia contemporanea del Medio Oriente, soprattutto nella commistione tra il sentimento popolare di autodeterminazione e il progetto politico di panarabismo. Questa commistione è inequivocabilmente provata dalle vicende storiche che portarono alla “questione palestinese” e ai paralleli conflitti arabo-israeliani.


Durante la Grande Guerra, tra il 1916 ed il 1918, a causa delle promessa occidentali di autodeterminazione, le entità che facevano parte dell'Impero Ottomano si ribellarono ad esso in quella che passò alla storia come la “Rivolta Araba”: la fine del primo conflitto mondiale segnò la fine dell'Impero Turco-Ottomano, che venne sfaldato in nuove entità statali poste sotto il mandato Britannico o Francese, nonostante le promesse di indipendenza fatte alle popolazioni arabe insorte.


Questi mandati, giustificati da scopi civilizzatori, furono in realtà l'inizio del colonialismo in Medio Oriente: i popoli autoctoni, che provavano una grande rabbia sia nei confronti delle leadership locali sia nei confronti delle potenze occidentali a cui queste ultime erano asservite, si ribellarono dando vita a grandi rivolte nazionaliste in Egitto (1919), Iraq (1920), Palestina (1922), Siria (1925) e Marocco (1926).


La situazione, già di per sé molto tesa, si complicò con la “dichiarazione Balfour” (1917), una dichiarazione di intenti che dava il benestare Inglese alla creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, che diede inizio ad un imponente flusso migratorio che portò la popolazione ebraica dalle 80.000 unità del 1920 alle 360.000 del 1936.
Moltissime terre che i contadini Palestinesi coltivavano da secoli ma che non gli “appartenevano” vennero vendute dei latifondisti arabi all'Agenzia Ebraica, che li distribuì agli immigrati ebrei.
Il timore Palestinese di diventare una povera minoranza in un territorio che, secondo le promesse inglesi, sarebbe dovuto diventare uno stato arabo, sfociò nella “Grande Rivolta Araba” del 1936, una sollevazione popolare contro gli ebrei e gli occupanti inglesi.
Nel 1948 gli ebrei in Palestina erano circa 905.000, di cui molti erano state vittime dell'Olocausto; sempre nel 1948 venne proclamata l'indipendenza dello Stato d'Israele in vista della scadenza del mandato britannico, e ciò scatenò la reazione degli stati arabi limitrofi (Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Yemen, Arabia Saudita e Libano) dando l'avvio al quinto conflitto arabo-israeliano nell'arco di soli 28 anni. La guerra fu vinta da Israele che divenne egemone nell'area.


Per dare un idea di quanto fosse sentita la questione palestinese nella totalità del mondo arabo è utile riportare ciò che scrisse nel 1952 l'ambasciatore americano a Baghdad:


"Ogni iracheno che incontro solleva lo stesso problema: la Palestina.
Mi dicono che non hanno nulla contro gli ebrei, con cui hanno convissuto per secoli, ma i sionisti sono crudeli e aggressivi. La creazione dello stato di Israele su terre che furono arabe per secoli è una ferita eterna anche alla spiritualità araba”.


Gli animi arabi non cambiarono col tempo: era sentire comune che non ci potesse essere pace per gli arabi se non ce n'era per i Palestinesi, palesando ai leader arabi (e non solo) quanto Israele rappresentasse un ostacolo ad ogni progetto panarabo o egemonico.
Tra i paesi che intrapresero con più insistenza la via per un “unità araba” c'era l'Egitto, che sotto la guida del presidente Gamal Abd el-Nasser diede vita alla Repubblica Araba Unita (R.A.U.) , comprendente l'Egitto, la Siria e lo Yemen: anche la Libia di Gheddafi tentò senza successo di prender parte al progetto.


La R.A.U. fu un disegno molto ambizioso, che si sgretolò quando gli Israeliani nel 1967 dichiararono guerra alla Repubblica Araba e con delle azioni lampo occuparono le Alture del Golan, la Penisola del Sinai, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, provocando l'esodo di migliaia di palestinesi arabi che si riversarono negli stati limitrofi.
Fu la fine del progetto nasseriano e l'inizio della radicalizzazione del rancore arabo nei confronti di Israele, che non allentò mai la morsa sulla popolazione araba rimasta in Palestina.


Al di là dell'empatia che la questione Palestinese può suscitare o meno, è evidente che il mondo arabo, seppur con le sue divisioni politiche e religiose, guarda con molta attenzione agli avvenimenti che colpiscono una parte di esso e come i sentimenti nazionalisti, anticoloniali o filo-palestinesi, si sono propagati in passato nell'immaginario collettivo arabo.
Accade esattamente lo stesso per quel che riguarda le istanze libertarie, democratiche e riformatrici relativamente agli avvenimenti odierni.


Alcuni pensatori e politici occidentali, in seguito alle rivoluzioni in Nord Africa, hanno espresso le loro perplessità nei confronti di una svolta democratica in Medio Oriente, come l'economista americano Edward Luttwak che ha dichiarato ad un noto programma televisivo: “Le condizioni socio-culturali di queste popolazioni non sono sufficienti per la democrazia”.
Sull'argomento si può discutere, ma deve essere precisato che è esistito un stato democratico in Medio Oriente, che seppur non arabo era di religione islamica: questo stato è l'Iran.
Attualmente l'Iran è una “Repubblica Islamica”, uno stato teocratico in cui la repressione è all'ordine del giorno. Anche qui la rivoluzione araba si è fatta sentire, soprattutto tra i giovani che negli ultimi anni hanno spesso manifestato contro il regime a rischio delle proprie vite.
Sembra impossibile, ma l'Iran nel 1951 elesse democraticamente come suo primo ministro Mohammed Mossadeq, un politico di grande prestigio, che fece riforme agrarie, nazionalizzò il petrolio, creò uno “stato sociale” e limitò i poteri dello Scià facendo diventare la Persia una monarchia costituzionale.
Il Primo Ministro iraniano ebbe prestigio internazionale soprattutto per le sue vittorie all'assemblea dell'ONU, da cui ebbe la legittimazione delle politiche di nazionalizzazione. Proprio per questo la rivista “Time” nel '51 incoronò Mossadeq “uomo dell'anno”.
Gli Stati Uniti d'America, sotto il Presidente Truman, simpatizzavano per Mossadeq. La storia cambiò quando divenne presidente Dwight D. Eisenhower che, per paura di un possibile avvicinamento dell'Iran all'Unione Sovietica, assieme al Primo Ministro Inglese Winston Churchill, che invece mirava a fermare la nazionalizzazione del petrolio iraniano, decise di portare avanti un'operazione coperta - Operazione Ajax - che rovesciò nel 1953 il governo di Mossadeq, ridando tutti i poteri allo Scià M.. Reza Phalavi, il quale iniziò una repressione contro le forze di opposizione laiche, socialiste, liberali e clericali. Il petrolio iraniano venne diviso dalle multinazionali Americane e Britanniche. Nel 1968, sull'onda delle proteste in Europa ma che, va ricordato, avvennero anche in Palestina e Libano, i giovani iraniani manifestarono contro lo Scià ed il risultato fu un bagno di sangue. Le persecuzioni contro le forze laiche si protrassero fino al 1979, quando l'ayatollah Khomeyni con un colpo di stato rovesciò lo Scià. Le forze laiche erano state decimate da più di vent'anni di repressione e l'Iran, che era sempre stato uno stato laico e dai costumi occidentali, divenne una teocrazia oscurantista: venne istituita la pena di morte per la blasfemia, l'adulterio e l'omosessualità; le donne, che fino a quel momento avevano liberamente indossato minigonne, ebbero l'obbligo di usare il velo.
Da quel momento in poi, la loro condizione fu migliore solo delle donne saudite, in quanto per legge dipendevano dal marito ma conservavano il diritto al voto e all'istruzione.
Anche se in altri paesi non c'erano governi democraticamente eletti, il paradigma iraniano è riscontrabile in molte realtà arabe dove le forze laiche nazionaliste, socialiste e liberali vennero represse sotto il silenzio occidentale, creando così squilibri politici generazionali.
Tenendo conto di questo elemento si dovrebbe dunque dedurre che ci vorrà del tempo prima di arrivare a democrazie compiute, ma che definire l'Islam contrario alla democrazia è un eccesso di narcisismo da parte dell'occidente che dovrebbe iniziare a vedere il mondo arabo come “altro” e non “alieno”.
I panarabismo è sopravvissuto ai leader che l'hanno tentato ed alle macerie dei loro fallimenti ed è lecito aspettarsi che esso possa veicolare una rinascita democratica in quella che è storicamente la culla della nostra civiltà. Questo però lo sapremo solo dalla storia.

 


Paolo Pelliccia

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