(ASI) Il vertice bilaterale andato in scena sabato scorso a Singapore tra il presidente cinese Xi Jinping e il rappresentante di Taiwan Ma Ying-jeou entrerà senz'altro nella storia delle relazioni internazionali di questo secolo. Non si tratta del primo passo di avvicinamento tra le due sponde dello Stretto, né di un evento che deve sorprendere più di tanto.
Dopo una lunga lotta per la legittimazione internazionale del proprio status di Stato sovrano sull'intero territorio cinese, Pechino aveva già ottenuto all'inizio degli anni Settanta il riconoscimento della Repubblica Popolare come esclusiva autorità cinese, innescando un processo di progressiva adesione al principio di 'una sola Cina' da parte di tutte le principali potenze occidentali, fino ad allora restie ad abbandonare Taipei.
In virtù della risoluzione ONU n. 2758, approvata il 25 ottobre 1971, le Nazioni Unite ed il Consiglio di Sicurezza sottoscrissero il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese come "l'unico legittimo rappresentante della Cina" e l'espulsione "dei rappresentanti di Chiang Kai-shek dal seggio che essi illegalmente occupa[va]no alle Nazioni Unite ed in tutte le organizzazioni connesse". Nonostante il voto contrario di Stati Uniti, Arabia Saudita, Giappone, Australia ed altri, furono decisivi i consensi di Francia, Gran Bretagna, Italia, dell'URSS e dei suoi alleati, di India, Pakistan, Iran, Algeria, Libia, Tunisia, Mongolia, Sudan, Messico, Cile e di numerosi altri Paesi africani ed asiatici.
Gli Stati Uniti devono farsi da parte
Nel 1979 anche Washington si adeguò ratificando il Taiwan Relations Act che, malgrado le ambiguità lasciate sullo sfondo dei rapporti USA-Taiwan, stabilì comunque il divieto di utilizzare la dicitura 'Repubblica di Cina' per indicare Taiwan, sostituendola con la formula 'autorità governative di Taiwan': un passaggio dal peso politico assolutamente significativo, non semplicemente linguistico. Il 17 agosto 1982, un nuovo incontro tra le massime rappresentanze di Cina e Stati Uniti, convocato per chiarire i dubbi ancora pendenti sulla questione, impegnò Washington a non cercare di prolungare ancora la sua politica di rifornimento militare in favore di Taiwan e a fare in modo che tali rifornimenti non avrebbero superato né in termini qualitativi né in termini quantitativi quelli concessi negli anni immediatamente precedenti all’accordo, evidenziando l’intenzione di ridurne gradualmente la portata sino ad una completa "soluzione definitiva", che Pechino chiaramente intese come un totale azzeramento delle forniture entro un periodo di breve o medio termine.
Patti mai mantenuti dalla Casa Bianca. Come nel 1992, quando George H.W. Bush cedette 150 caccia F-16 alle forze armate taiwanesi; come nel 2001, quando il figlio, George W. Bush, siglò la vendita al governo di Taipei di 8 sommergibili e di altri sistemi d'arma, per un valore totale pari a circa 4,7 miliardi di dollari; come nel 2010, quando il Pentagono notificò al Congresso la richiesta di autorizzazione per destinare a Taiwan materiale bellico per un valore complessivo di 6,4 miliardi di dollari, tra cui 60 elicotteri, 114 missili intercettori, sistemi di comunicazione per i caccia F-16, 2 cacciamine e 12 missili antinave; o, ancora, come nel 2011, quando il Congresso diede il suo assenso a stanziare altri 5,85 miliardi di dollari in favore di Taiwan per l’ammodernamento di 145 caccia F-16 A/B e la cessione di strumentazioni per caccia IDF, F-5 E/F e aerei-cargo C-103H. In totale, nel biennio 2010-2011 gli Stati Uniti, in piena crisi recessiva, spesero oltre 12 miliardi di dollari per armare Taiwan.
La condanna costante di Pechino di fronte a quelli che - diritto internazionale alla mano - si configurano come reiterati atti di violazione della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale della Cina da parte degli Stati Uniti non è mai andata oltre gli avvertimenti. Fortunatamente, lo stato maggiore cinese ha finora mantenuto i nervi estremamente saldi anche davanti alle più palesi provocazioni navali, da ultimo l'ingresso nel mese scorso della USS Lassen in acque territoriali cinesi, all'altezza della barriera di Zhubi nell'Arcipelago delle Isole Nansha. Ma ogni pazienza ha un limite e non sappiamo per quanto ancora potrà durare questa situazione.
La strada verso la riunificazione
Ma Ying-jeou rappresenta senza dubbio la faccia moderna e presentabile di un Kuomintang che, nonostante i crimini compiuti in passato dal generale Chiang Kai-shek e dai suoi sodali, può ancora vantare l'importante eredità storica ed ideologica di Sun Yat-sen, il grande leader nazionalista elogiato anche da Mao Zedong. Secondo la dottrina dei 'Tre Principi del Popolo', rivendicata ancora oggi dal Kuomintang, la nazione, la democrazia e il benessere sociale sono i pilastri essenziali per la costruzione della repubblica. Allo stesso modo, il Partito Comunista Cinese pone l'accento sui tre elementi indicati da Sun Yat-sen fornendone, però, una chiave di lettura influenzata dal socialismo scientifico.
Fin quando Mao ha imposto una direttrice di sviluppo economico legata al marxismo-leninismo e ad una sua supposta purezza dottrinaria, il dialogo tra il nazionalismo 'socialdemocratico' di Taiwan e il 'nazional-comunismo' di Pechino era di fatto impossibile. Dopo le riforme di Deng Xiaoping e l'apertura del sistema socialista cinese all'economia di mercato, anche l'approccio dei leader di Taiwan verso la Cina continentale è parzialmente cambiato, in linea con l'indirizzo di molti governi europei, tra cui anche quello italiano che negli anni Ottanta incrementò l'interscambio con la Repubblica Popolare. In riferimento alle polemiche innescate in Italia sulla sua missione governativa del 1986, nel 1998 lo stesso Bettino Craxi precisò su Repubblica: "In Cina, dove mi recavo per la terza volta, consolidai un rapporto di amicizia italo - cinese, per il quale i Socialisti italiani avevano lavorato per tanti anni, a cominciare da Pietro Nenni cui si deve il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese".
L'incontro tra Xi e Ma ha ribadito l'importanza del 'Consensus 1992', l'accordo-quadro raggiunto per l'appunto nel 1992, nel tentativo di unire gli sforzi di Pechino e Taipei allo scopo di incamminarsi sul percorso della riunificazione. Da allora è proprio l'economia il perno attorno al quale le diplomazie hanno trovato le vie più agevoli per il dialogo, tanto che nel 2013 il volume di interscambio aveva raggiunto quota 197 miliardi di dollari. Ormai, il 40-41% circa dell'export di Taiwan ha come destinazione la Repubblica Popolare Cinese (compresa la RAS di Hong Kong), mentre numerose aziende della Cina continentale investono nell'Isola e viceversa.
Il vertice di Singapore non sposta di una virgola la posizione cinese, ovvero quella più forte e più solida dal momento che è Pechino a detenere la sovranità sull'intera nazione. L'approccio morbido messo nuovamente in campo dal presidente Xi Jinping, tuttavia, ne smussa quegli aspetti che, agli occhi dei connazionali d'oltre stretto, potrebbero apparire più spigolosi e indigesti.
Secondo le linee guida espresse dalla leadership cinese all'interno del Libro Bianco sulla questione taiwanese del 1993, l'iter per la riunificazione dovrebbe avviarsi sulla base del riconoscimento pieno e definitivo del principio di 'una sola Cina' da parte delle autorità di Taiwan, cessando di ritenere in corso di validità legale la sua illegittima carta costituzionale. A quel punto, il territorio insulare sarebbe incorporato - de jure e de facto - nella Repubblica Popolare Cinese, acquisendo lo status di regione amministrativa speciale, come già avvenuto per Hong Kong (1997) e Macao (1999).
Questo significa che per almeno 50 anni, il sistema economico di Taiwan resterebbe del tutto immutato, conservando la sua natura capitalistica in regime di libero mercato, e manterrebbe un'ampia autonoma nel campo legislativo e in quello amministrativo. In particolare, dunque, i 23 milioni di cinesi taiwanesi potrebbero continuare ad eleggere democraticamente i propri rappresentanti politici affinché governino la provincia e prendano parte come delegati all'Assemblea Nazionale del Popolo di Pechino.
Il governo centrale, invece, acquisirebbe la piena sovranità nelle sfere della difesa e della politica estera, eliminando tutti i fattori di rischio per la sicurezza marittima ad oggi principalmente legati alla presenza militare straniera intorno alle acque dello Stretto.
Superare il Novecento
Sono rimasti soltanto 22 Stati membri dell'ONU a riconoscere la legittimità delle autorità di Taipei come rappresentanti della Cina. Oltre al Paraguay, a El Salvador, a Haiti, all'Honduras, allo Swaziland, alle Isole Salomone, al Burkina Faso, al Panama, al Belize e ad altre piccole realtà, c'è lo Stato del Vaticano, il cui rifiuto a superare questo scoglio rappresenta un ostacolo importante sul cammino della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Pechino, ben più grande della questione sulla libertà di culto che in Cina, ad eccezione del periodo della Rivoluzione Culturale (1966-1972), non è mai stata messa in discussione, almeno fin quando la religione non sia stata strumentalizzata per attentare alla sicurezza collettiva (vedi Xinjiang), all'unità nazionale (vedi Tibet) e alla Costituzione (vedi Charta08 e Liu Xiaobo), e sempre fermo restando che il Cristianesimo non rientra in alcun modo tra le religioni tradizionali dell'Estremo Oriente.
In questo senso, sarà interessante capire se Papa Francesco intenderà trasformare in modo più chiaro l'approccio internazionale del Vaticano e, dopo la storica visita a Cuba, decidere di aprire le porte del dialogo anche alla Cina. Appare scontato che fino a quando la Santa Sede non si adeguerà alla risoluzione n. 2758/1971 delle Nazioni Unite, queste porte non potranno nemmeno dischiudersi. Del resto, come si può pretendere di essere invitati in un Paese se nemmeno lo si riconosce come Stato sovrano nel pieno potere delle sue funzioni?
Al di là della scelta del Vaticano, sarà importante che l'opinione pubblica occidentale cominci a rifiutarsi di apprendere la realtà cinese attraverso il filtro di opinionisti over-50 fermi ad una mentalità da guerra fredda, ancorata alla mitologia dell'eccezionalismo americano e all'idea, del tutto infondata, che la democrazia liberale sia "il migliore dei mondi possibili".
Non c'è nessuna Taiwan da salvare dal "pericolo rosso". C'è soltanto un popolo, quello cinese, al quale deve essere garantito il diritto a riunirsi pacificamente.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia