(ASI) Dalla mezzanotte di ieri, la Grecia è ufficialmente insolvente nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. Dopo le affannose trattative tentate nelle ultime ore per trovare un accordo tra le parti, anche

il possibilista Jean-Claude Juncker si è dovuto arrendere alla decisione del governo guidato da Alexis Tsipras di non saldare la rata di circa 1,7 miliardi della quota che l'istituto con sede a Washington pretendeva fosse restituita.

Le possibili reazioni della trojka
Secondo gli analisti, Christine Lagarde potrebbe ora ricorrere a due soluzioni: la prima, quella più "morbida", è di prendere atto dell'insolvenza e di inoltrare un avvertimento ufficiale al governo di Atene che stabilisca il congelamento di ulteriori prestiti (erano previsti stanziamenti per altri 16 miliardi entro il 2016) ed una proroga per la restituzione di quelli già erogati; la seconda, quella più dura, è l'avvio della procedura di espulsione della Grecia dal FMI, che comunque non sarebbe effettiva prima di un anno. In entrambi i casi, tuttavia, il Fondo si ritroverebbe impantanato in una situazione di forte criticità. Nell'ipotesi della concessione di un ulteriore lasso di tempo, infatti, il rifiuto greco verrebbe a costituire un precedente pesante, al quale in futuro potrebbero appellarsi tantissimi Paesi in via di sviluppo a rischio insolvenza, innescando un potenziale "incrocio" di ritardi sui pagamenti. Nell'ipotesi dell'espulsione, invece, la Grecia sarebbe il primo Paese occidentale ad economia avanzata ad uscire dal board del Fondo nei 71 anni della sua esistenza, assestando così un duro colpo all'immagine dell'istituto proprio mentre le economie (ri)emergenti, in particolare Cina e Russia, stanno dando vita ad analoghi organismi concorrenti (BRICS-NDB e AIIB, tra i più recenti e ambiziosi).
Risulta inoltre logico prevedere che le altre rate, ben più onerose di questa, alla pari di quelle attese dalla BCE entro il prossimo 20 luglio, non saranno saldate. Come più volte ricordato dagli esponenti del governo greco, le liquidità del Paese sono ridotte all'osso e l'insolvenza è l'unica soluzione per evitare la catastrofe definitiva. Il referendum indetto per il prossimo 5 luglio si preannuncia dunque come una scelta tra l'ideologia europeista, ormai quasi completamente sganciata dalla realtà di un processo di integrazione pieno di problemi, e la questione sociale di un Paese che da circa cinque anni è entrato in una drammatica spirale recessiva e, durante la "cura" ordinata dalla trojka FMI-BCE-UE, ha visto ingigantirsi il suo debito senza alcuna prospettiva di ripresa e sviluppo.
La domanda più immediata è dunque: cosa farà ora la Grecia? Le voci e le opinioni si rincorrono e, al di là delle ipotesi più fantasiose, appare sempre più realistico supporre che Atene stia già da tempo studiando una strategia che le consenta di attutire il colpo di una possibile - ed ogni giorno più probabile - fuoriuscita dall'Eurozona e dunque, stando alle parole della Merkel, anche dall'Unione Europea. La cancelliera tedesca sembra voler chiudere i conti una volta per tutte con la Grecia e, in attesa del referendum, frena, assieme al suo ministro Wolfgang Schaeuble, gli entusiasmi della Commissione Europea, in particolare di Juncker, ancora in cerca di un accordo riparatore. Se le istituzioni europee possono perfino considerare la possibilità che la Grecia torni alla sua moneta nazionale restando al contempo nell'UE (sul modello di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca), l'esecutivo tedesco, dal suo punto di vista, ritiene simbiotiche l'appartenenza all'Eurozona e quella all'Unione.

Fuori dall'UE, verso I BRICS?
Coincidenza vuole che proprio questa mattina l'Assemblea Nazionale del Popolo Cinese abbia completato le operazioni parlamentari di ratifica per l'approvazione della Banca per lo Sviluppo (NDB) dei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), fornendo a molti osservatori lo spunto per collegare i due eventi di portata internazionale. Attualmente impegnata in un processo destinato a ridefinire l'architettura istituzionale finanziaria mondiale, pochi giorni fa Pechino si era detta disponibile ad aiutare le parti per ricomporre lo strappo tra Bruxelles ed Atene, auspicando la salvaguardia dell'unità europea. Alcuni reporter occidentali hanno così interpretato le frasi diplomatiche del primo ministro cinese Li Keqiang in visita ufficiale nella capitale belga, come una manifestazione della volontà che la Grecia restasse nell'Eurozona affinché la moneta unica europea mantenesse la sua forza valutaria sul mercato internazionale.
In realtà, il dibattito in Cina è molto più complesso e diversificato, e le principali preoccupazioni di chi sperava in una immediata soluzione "pacifica" della crisi greca nascevano dal timore che un indebolimento/crollo dell'Euro possa destabilizzare il mercato valutario, eliminando un contrappeso importante rispetto al dollaro statunitense. Anche sul piano più globalmente economico, la Cina è ovviamente interessata alla stabilità dell'Unione Europea, suo primo partner commerciale mondiale. Tuttavia, in uno scenario di ritorno alla dracma, ancora molto incerto ma da oggi senz'altro più plausibile, la debolezza della ritrovata moneta nazionale greca potrebbe trasformarsi in un punto di forza che potenzierebbe l'export e la capacità di attrazione di investimenti esteri e turismo. In questo caso sarebbe difficile pensare che i Paesi di un'Unione Europea rinnegata dalla Grecia possano ripresentarsi, da (ex?) creditori, in terra ellenica come investitori. Lo stesso dicasi per gli Stati Uniti, primo "socio azionario" del FMI. La Cina, invece, è già ad Atene da qualche anno in attesa di concretizzare definitivamente i progetti di investimento della statale COSCO nel Porto del Pireo, sui quali il governo Tsipras ha dato il via libera proprio nei mesi scorsi, dopo un iniziale stop a tutti i piani di privatizzazione che consentisse all'esecutivo di riesaminarli e rivalutarli alla luce del mutato scenario politico nazionale. Qualora fosse portato a regime, il "nuovo" Pireo costituirebbe un hub di rilevanza strategica internazionale sul Mediterraneo, capace di soffiare a Venezia il ruolo di punto d'incontro tra la nuova Via della Seta terrestre e quella marittima, pensate dalla dirigenza cinese nell'ambito del mega-progetto 'One Belt, One Road'.
I giornali spendono molto inchiostro per Yanis Varoufakis, l'aitante ministro delle Finanze greco, ma d'ora in poi il lavoro più oneroso potrebbe spettare al professor Nikos Kotzias, ministro degli Esteri ed autentica "mente" della politica estera del Paese. In gioventù membro di rilievo del KKE (partito comunista), Kotzias è oggi un indipendente di sinistra, insegna Teoria e Relazioni Internazionali all'Università del Pireo e vanta una corposa produzione bibliografica. Nel corso di un'intervista concessa nel settembre dell'anno scorso, Kotzias precisava che "la Cina comprende i requisiti di un mondo multipolare, presta attenzione ai rispettivi equilibri, evita di interferire negli altri Paesi e rispetta tutti gli attori del sistema politico internazionale", ritenendo l'ascesa del gigante asiatico come un fattore "certamente positivo, indipendentemente dalle diverse opinioni che gli esperti possono avere sullo sviluppo internazionale della Cina e sulle sue divisioni e armonizzazioni". Noto in patria per la sua teoria sul "colonialismo del debito" che la Germania avrebbe esercitato in questi anni a danno della Grecia, Kotzias è uno dei principali studiosi delle economie emergenti, in particolare dei BRICS, rispetto ai quali ha sempre sostenuto la necessità di un progressivo avvicinamento, in accordo con le profonde mutazioni degli equilibri mondiali in senso multipolare.

Le paure americane
Il timore statunitense, già sottolineato da alcuni analisti, non è più quindi soltanto finanziario in relazione ai possibili contraccolpi sul FMI visti in precedenza, ma diventa anche e soprattutto politico. Se la Grecia dovesse uscire dall'Unione Europea ed aprire le porte del commercio e degli investimenti a Mosca e Pechino, si ritroverebbe nella condizione ancor più singolare di storico membro della NATO ma economicamente connesso ai due più grandi competitori geopolitici di Washington. A quel punto, le migliori condizioni garantite dalla nuova Banca per lo Sviluppo del BRICS potrebbero convincere Atene ad abbandonare definitivamente il sistema occidentale anche sul piano militare.
Il programma presentato da Syriza a Salonicco nel settembre 2014 era completamente dedicato ai temi economici e sociali, indicando per punti e propositi un piano di ricostruzione nazionale e di rilancio dell'occupazione, della produzione e dello stato sociale nel Paese. Rispetto al programma del 2012, erano stati di fatto tagliati tutti gli altri temi, a cominciare dalla politica estera. Punto fermo in materia di quel programma elettorale era la fuoriuscita della Grecia dalla NATO e il ritiro immediato delle truppe greche da tutte le missioni internazionali in corso. Il "silenzio" del programma di Salonicco, invece, aveva lasciato intuire un parziale cedimento di Tsipras su alcuni punti-chiave. La composizione della squadra di governo, però, con Kotzias agli Esteri e con il filo-russo Panos Kammenos alla Difesa, e le prime esternazioni sulla crisi ucraina hanno lanciato un chiarissimo segnale anche alla Casa Bianca. Da quando il nuovo governo greco è in carica, buona parte della stampa occidentale ha cambiato pesantemente atteggiamento nei confronti del giovane politico greco e dei suoi principali ministri, vittime di una campagna discriminatoria piuttosto evidente. Il tempo darà i suoi responsi. Quel che è certo è che la Grecia da oggi gode di un potere negoziale scomparso da molto tempo e ha ancora molte carte da giocare al tavolo delle trattative.(ASI)


Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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