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La Turchia e la prova democratica del giornalismo

(ASI) La Turchia sta vivendo da tre mesi una grave crisi sociale che contrappone la polizia governativa del Premier turco Recep Tayyip Erdogan alla maggioranza dell'opinione pubblica. La posta in gioco è molto più alta di un agognato cambio di governo, essendo state intaccate le basi democratiche dello Stato. La pressione popolare è pulsante da un intervallo di tempo più lungo di tre mesi, a causa dell'impronta religiosa ed autoritaria del governo di Erdogan. Il premier ed il suo “Partito per la giustizia e lo sviluppo” (AKP) hanno inaugurato una stagione di limitazione delle libertà fondamentali: libertà di parola, di stampa, di uso del web, di associazione e riunione.

I principi religiosi hanno plasmato tale svolta, portando dal divieto di aborto alla redazione del reato di blasfemia. Il consumo di alcol è stato bandito e l'istruzione laica messa a repentaglio dall'islamizzazione dei contenuti scolastici. In questo contesto si sono generati gli eventi che stanno passando alla storia come scontri di Gezi Park del 28 maggio scorso. Nel cuore di Istanbul un parco, il Gezi, è destinato all'abbattimento per la costruzione di un centro commerciale. La protesta di una cinquantina di cittadini impegnati nell'evitare l'apertura del cantiere culmina in una grave giornata di repressione da parte della polizia con un  centinaio di feriti fra manifestanti e persone accorte.

Il malcontento popolare partito dalla capitale ha unito a macchia d'olio molte sigle di cittadini, tra cui il logo Occupy Gezi, in una protesta sistematica in tutte le città contro i metodi in aura di dittatura del governo.

Erdogan dal canto suo ha reagito trasformando l'infiammazione letterale degli scontri di piazza in un'infiammazione morale. Dalla definizione di “roditori pietosi” per i manifestanti il Premier è andato ben oltre. La polizia infatti ha fatto un uso costante di spray al peperoncino, gas lacrimogeni ad altezza d'uomo, urticanti nell'acqua degli idranti dei camion TOMA. Il bilancio degli incidenti è di 6 morti e circa 4mila feriti. Circa mille persone sono state arrestate in 48 province diverse, compresi i medici e gli avvocati intervenuti nella difesa dei manifestanti feriti.

Erdogan ha sorpassato così la linea di demarcazione fra il contenimento di una manifestazione e la violazione dei diritti umani. Una condotta che colloca la Turchia in un'area non democratica molto lontana dall'Unione europea con la quale da oltre trenta anni intrattiene rapporti di inclusione.

Dallo scorso maggio sino ad oggi i media turchi si sono divisi nel raccontare o meno questi soprusi e mettere di conseguenza a  repentaglio la propria esistenza. Ci sono state emittenti dai dichiarati finanziamenti governativi che hanno scelto di trasmettere ad esempio un documentario sui pinguini mentre la polizia massacrava i manifestanti, motivo per cui il pinguino è divenuto l'animale simbolo dei protestanti. I media che hanno riportato le manifestazioni hanno subìto perquisizioni nelle sedi, sequestri di libri e documentazioni, obbligo di censura, arresti. L'uso dei social network, in particolare da parte dei giovani turchi, ha coadiuvato la denuncia al mondo di questi gravi episodi polizieschi, che sono stati coperti dalle trasmissioni principali. Proprio dai social network gran parte dei turchi sta attingendo l'informazione quotidiana.

Kemal Kilicdaroglu- portavoce del partito d'opposizione, il Partito Popolare Repubblicano dall'acronimo turco CHP- ha fatto luce lo scorso martedì: «Stiamo vivendo un periodo in cui i mezzi d’informazione sono controllati dal governo e molti direttori prendono ordini direttamente dai politici». Il CHP ha documentato come 64 giornalisti siano stati incarcerati per affiliazione a gruppi di pensiero diversi dal governo ed accusati di affiliazione terroristica.

Il “Sindacato dei giornalisti turchi” (TGS) ha dichiarato: «I nostri colleghi hanno lavorato duramente per garantire il diritto all'informazione del pubblico: lo hanno pagato con il loro posto di lavoro. Alcuni sono stati censurati, altri hanno visto i loro programmi tv chiusi. Alcuni cronisti  sono stati licenziati per dei tweet, uno per avere scritto 'Ciao' a un manifestante».

Il Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha  anch'esso denunciato: «Erdogan è impegnato in un'ampia offensiva per ridurre al silenzio i giornalisti critici attraverso detenzione, procedure legali e intimidazione ufficiale in una delle più vaste campagne di repressione della libertà della stampa nella storia recente».

Ma è l'associazione Reporter senza frontiere che la scorsa settimana ha tracciato l'immagine più cruda di questo momento storico, definendo la Turchia come “la più grande prigione al mondo per i giornalisti”, e declassandola al 154esimo posto nella classifica della libertà di stampa nel mondo.

Dopo la denuncia di un foto reporter italiano, Mattia Cacciatori, è stata inoltre confermata la notizia che oltre trenta cronisti stranieri sono tuttora detenuti nelle prigioni turche dopo gli episodi di Gezi Park.

Maria Giovanna Lanotte- Agenzia Stampa Italia

 
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