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La pericolosa “profondità strategica” della Turchia

(ASI) “Noi, partner regionale immediato ed esteso dell’Afghanistan, condividiamo una storia e un futuro comuni. Abbiamo un ruolo importante per superare questa sfida psicologica, attraverso la creazione di una speranza per un avvenire migliore e di un più forte senso di fiducia per quanto riguarda il futuro dell’Afghanistan e il cuore dell’Asia nella sua totalità.

Grazie alla nostra vicinanza geografica, politica e culturale e ad un destino condiviso, tutto ciò che accade in Afghanistan ci riguarda da vicino, in un modo o in un altro” (Ahmet Davutoğlu, Kabul, 14 giugno 2012)

Da tempo si fa un gran parlare della politica neo-ottomana adottata dalla Turchia. Il progetto è il risultato di elaborate analisi portate avanti negli ultimi dieci anni dall’attuale Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, quando era ancora soltanto un illustre docente presso l’Università Beykent di Istanbul. La sua opera più nota, intitolata Stratejik Derinlik. Turkiye’nin Uluslararasi Konumu (letteralmente: Profondità Strategica. La posizione internazionale della Turchia), pubblicata originariamente nel 2001, rappresenta uno dei più importanti tentativi bibliografici di influenzare ed infine orientare la politica estera di Ankara lungo direttrici ancora inesplorate nell’era moderna.
In realtà, il dibattito strategico in Turchia era tornato a farsi vivace subito dopo la fine della Guerra Fredda. La conclusione del confronto bipolare aveva annullato in poco tempo gran parte delle logiche geopolitiche dominanti nel quarantennio compreso tra il 1946 e il 1989, determinando la scomparsa della rigidità geostrategica fondata sul confronto nucleare e sul concetto di Mutual Assured Destruction. Da un lato, gli Stati Uniti potevano forse dichiararsi vincitori di un confronto organico che aveva messo in competizione tutti i settori di punta delle due superpotenze e cominciare così ad espandere la loro sfera d’influenza al di fuori dello spazio trilaterale a capitalismo avanzato. Dall’altro lato, la caduta del Patto di Varsavia provocava inesorabilmente la scomparsa di un equilibro sul quale Washington aveva fondato gran parte della sua politica di gestione delle alleanze. Basti pensare all’emblematico caso italiano, dove appare sempre più chiaro che la fine della Guerra Fredda rese necessario per la Casa Bianca l’innesco, più o meno diretto, di un regime-change attraverso l’operazione “Mani Pulite” che cancellò dalle scene l’ormai ingombrante presenza dei dirigenti pubblici più autonomi e freddi rispetto ad un atlantismo a cui aderivano non per convinzione ma per necessità di fronte a quella che fino ad allora avevano ritenuto la “minaccia principale” (Unione Sovietica) o per semplice accettazione dello status quo nel quale si erano trovati durante la loro carriera parlamentare o amministrativa.
Allo stesso modo, diversi attori internazionali fino a quel momento vicini agli Stati Uniti – alcuni dei quali perfino già compresi nelle alleanze militari da questi intessute durante la prima parte della Guerra Fredda (NATO, CENTO, SEATO, ANZUS ecc. …) – potevano cominciare a rivedere almeno in parte le proprie strategie internazionali. La Turchia, che era ed è annoverabile tra questi Paesi, riveste un caso del tutto particolare, nella misura in cui i suoi contrasti con la Russia non si limitavano al periodo della contrapposizione antisovietica ma sconfinavano nel passato presovietico, chiamando in causa numerose guerre contro Mosca/Pietrogrado, finalizzate al conseguimento di una sfera egemonica nel Caucaso, nei Balcani e in Asia Centrale.
Nei primi anni Novanta, Ankara, nonostante la sua piena integrazione nella NATO, poteva così provare a ridefinire la propria vocazione internazionale parallelamente ad una rinascita culturale interna al Paese. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano e la rivoluzione kemalista, lo scenario politico nazionale fu essenzialmente contrassegnato dall’introduzione di una nuova mentalità, pesantemente laica, indirizzata ad una rapida modernizzazione della nazione nel segno di una pacificazione dei confini, del sostanziale abbandono di qualsiasi vocazione imperiale e di una progressiva integrazione nel sistema di sviluppo e di società del mondo occidentale. Tuttavia l’assorbimento di elementi concettuali e teoretici tipicamente occidentali nel nuovo scenario politico del Paese, non avviò un immediato processo di radicale trasformazione culturale della Turchia. Era del resto impensabile che il cuore di un impero durato oltre quattro secoli, potesse cancellare in appena sessanta o settanta anni tutte le tracce e gli elementi del passato.
Il curioso fenomeno di cambiamento interno ebbe così l’effetto di dar luogo ad un nazionalismo turco che, attraverso l’opera di Zyia Gökalp e la musa ispiratrice dell’orientalista ungherese di origini ebraiche Ármin Vámbéry (in realtà nato col nome di Hermann Bamberger), poté recuperare l’idea della costruzione di un Grossraum turco fondato sull’unità etnico-linguistica dei popoli turanici. Il mito panturco, o turanista, era già sorto nel XIX secolo proprio tra l’Ungheria e la Turchia, con una notevole diffusione presso gli ambienti culturali dell’Impero Prussiano e dell’Impero Austro-Ungarico, ma per ovvie ragioni aveva trovato ben poco spazio presso la società civile dell’Impero Ottomano. Questo era infatti fondato non su progetti etnocratici bensì sulla priorità confessionale, pensata per diffondere l’Islam lungo la cerniera mediterranea compresa tra i Balcani e il Nord Africa, e finalizzata alla costruzione di un grande sultanato capace di sfruttare la privilegiata posizione di Istanbul in quanto Sublime Porta tra Oriente e Occidente.
Il nuovo nazionalismo turco, invece, poteva immaginare la ricostruzione di un ponte storico-culturale con l’epopea dei popoli turchi, partendo dai Selgiuchidi e procedendo a ritroso sino alla riscoperta dell’antico Turkestan, un’area territoriale mai esistita politicamente, stanziata nel cuore dell’Asia Centrale, tra il Mar Caspio e la Mongolia Interna, che diede origine alle numerose popolazioni di matrice uralo-altaica. Tuttavia i quattro secoli di dominazione ottomana non potevano essere ignorati e le pesanti tracce interetniche ereditate dall’espansione mediterranea dei Sultani avevano notevolmente indebolito la componente turanica. Nel 1993 un noto poeta kirghiso accolse proprio il presidente Özal durante una delle prime visite nella regione all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, dicendo: “voi turchi avete lasciato l’Asia Centrale a cavallo e avevate ancora gli occhi a mandorla, oggi tornate in aereo e avete gli occhi blu”. Queste taglienti parole suonarono già allora emblematiche e cominciarono a rivelare la completa sfiducia riservata in Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kirghizistan, da quelle popolazioni rispetto alle quali Ankara aveva avuto la presunzione di porsi come l’ağabey, ovvero come “fratello maggiore”.
A differenza di quanto continui ad affermare una vulgata che per vent’anni ha tentato di colpevolizzare l’azione geopolitica della Russia Zarista e dell’Unione Sovietica nel Turkestan attraverso l’idea antistorica che i due secoli di russificazione e sovietizzazione di quei territori ne avessero snaturato la geografia umana e politica, è ben più appropriato puntualizzare che fu piuttosto l’era ottomana ad aver trasformato e determinato la nuova composizione interetnica della Turchia, allontanandola forse per sempre dai popoli turchi delle origini. Andava inoltre considerato il fatto che la consolidata vocazione atlantista dell’indirizzo strategico del Paese e gli amichevoli rapporti mantenuti con Israele per larga parte della Guerra Fredda avevano pesantemente indebolito l’immagine di Ankara presso i popoli di religione musulmana, soprattutto se paragonata con la politica filoaraba e antisionista adottata con nettezza dall’Unione Sovietica a partire dal 1967.
Questo costrinse Ankara a correggere il tiro, a mettere in cantiere le sue velleità espansionistiche e a concedersi alcuni anni per elaborare una dottrina strategica che evitasse di incappare nei pesanti limiti dell’improvvisazione. Rientra proprio in questo quadro la pubblicazione di Stratejik Derinlik, un saggio divenuto fondamentale da quando Ahmet Davutoğlu fu eletto consigliere strategico governativo per la politica estera nel 2002 e da quando assunse la direzione del Ministero degli Affari Esteri del Paese tre anni fa. Profondità Strategica è un testo che delinea le direttrici geopolitiche del nuovo corso nella strategia di Ankara, alla luce delle trasformazioni seguite alla fine della Guerra Fredda. Davutoğlu parte dal preambolo generale che la Turchia, per la sua capacità di proiezione strategica a carattere etno-linguistico e per la sua possibilità di far leva sull’eredità dell’Impero Ottomano, sia l’unico attore strategico dotato di margini di manovra così importanti e vasti. Questa premessa mostrava piuttosto nettamente l’intenzione di chiudere i conti con la tradizione laicista e repubblicana del kemalismo delle origini, invitando la nuova Turchia a pensarsi non più come semplice Stato-nazione sul modello giacobino (occidentale) bensì come Stato a vocazione “imperiale”, che non può né deve continuare ancora ad accettare una condizione periferica rispetto ad altri spazi geostrategici occidentali od asiatici, il cui centro risieda presso altre forme di civiltà: Stati Uniti e Gran Bretagna, Russia, India o Cina.
Non viene escluso nulla e, per la prima volta nella storia della Turchia moderna, le istanze strategiche panislamiche derivate dalla riconsiderazione dell’eredità ottomana e le istanze strategiche panturche, in passato spesso confinate al solo programma ultranazionalista del MHP, possono dunque coniugarsi e costituire una miscela tanto innovativa quanto pericolosamente esplosiva per l’elevato rischio di ingerenza e intromissione in aree critiche come i Balcani, il Caucaso e l’Asia Centrale, senza dimenticare la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang in Cina, dove le locali sigle separatiste rivendicano un indipendentismo di matrice panturca. Già nel luglio 2009, durante i disordini scoppiati ad Ürümqi, Erdoğan fu l’unico alto membro di un governo straniero a denunciare il presunto genocidio che le milizie dell’Esercito Popolare di Liberazione avrebbero perpetrato nello Xinjiang ai danni degli Uiguri. Ancor più che per quanto riguarda il caso della Regione Autonoma del Xizang (Tibet), quello dello Xinjiang è un secessionismo piuttosto artificiale, spesso manipolato da Amnesty International, Radio Free Asia e Human Rights Watch, varie volte cavalcato da al-Qaeda e addirittura privo di senso storico-geografico dal momento che la regione è stata più volte sottoposta alla sovranità imperiale cinese già prima di essere occupata da Turchi e Uiguri (secc. VI-VII) e di essere invasa dagli Arabi (sec. VIII), che ne convertirono le locali popolazioni turco-mongole all’Islam. Inoltre gli Uiguri costituiscono soltanto il 45,2% dell’intera popolazione regionale, che comprende almeno altri dodici gruppi etnici principali, fra cui Han, Kazaki, Mongoli, Hui, Daur e Xibe. Eppure, la Turchia continua a svolgere un ruolo di primo piano nel sostegno politico ai microgruppi separatisti dello Xinjiang, mostrando il chiaro intento di spingersi sino nel cuore dell’Asia Centrale, laddove gli interessi energetici ed economici si fanno più ghiotti, a cominciare dal Turkmenistan, una nazione che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è isolata rifiutando la partecipazione a tutti i più importanti progetti economici e militari pensati dal Cremlino per la ricostruzione dello spazio postsovietico (CSTO, SCO ed EurAsEC), e lasciando aperti importanti canali di interlocuzione commerciale quasi esclusivi con la sola Turchia. Rilevante è inoltre la presenza turca in Bulgaria, dove organizzazioni politiche e non-governative stanno cercando di montare un associazionismo confessionale filoturco per affermare progetti di annessione o assoggettamento, ed anche in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, dove Ankara garantisce alle comunità musulmane indigene un sostegno economico che si suddivide tra piani di modernizzazione industriale e programmi legati all’edilizia e al settore infrastrutturale.
Secondo la chiave di lettura fornita da Davutoğlu, infatti, la posizione della Turchia viene individuata quale pivot strategico, quale centro di un nuovo asse della politica internazionale che riesca ad inserirsi a pieno titolo nella nuova fase seguita all’ormai conclamato fallimento delle politiche islamofobiche e rigidamente unilateraliste della Casa Bianca, che contrassegnarono gli anni della presidenza di George W. Bush e della segreteria di Donald Rumsfeld alla Difesa. Davutoğlu, tuttavia, non si inventa nulla di nuovo e si richiama esplicitamente a Nicholas Spykman, rivendicando per il proprio Paese un ruolo fondamentale, rafforzato dalla sua collocazione nel centro geografico del Rimland, in uno snodo terrestre che mette in comunicazione il Mar Mediterraneo con l’Oceano Indiano e, dunque, anche il Pacifico.
In tal senso, la rinascita della strategia di Ankara dovrebbe seguire tre binari:

1. La revisione delle alleanze tradizionali in base alla quale, pure ribadendo l’importanza di una partnership con gli Stati Uniti e l’Europa, la Turchia dovrebbe rivolgere lo sguardo verso due vicini ancora rancorosi nei confronti di Ankara come la Russia e l’Iran, e a due potenze emergenti come la Cina e l’India, per poter controbilanciare un’eccessiva dipendenza della nazione dall’Occidente, senza però spiegare come le ingerenze nella questione cecena, i tentativi di intromissione in Asia Centrale e nello Xinjiang possano facilitare i rapporti della Turchia con Mosca e Pechino.
2. Una maggiore identificazione della rappresentazione geografica della Turchia con lo spazio ex-ottomano, specialmente per quanto riguarda gli interessi di Ankara nei territori dell’Iraq e della Siria in Medio Oriente, nei territori bosniaci, albanesi e kosovari lungo i Balcani e nei territori azeri o a maggioranza azera nel Caucaso, pur senza spiegare come questi interventi possano conciliarsi con gli interessi dell’Armenia e con gli interessi della Russia per quanto concerne l’integrità territoriale di Paesi ortodossi come la Serbia, la Grecia e la Bulgaria, e con l’Iran per quanto concerne la disputa tra Tehran e Baku, legata alle due regioni iraniane a maggioranza azera, dove risiede una comunità numericamente più alta di quella residente in patria (secondo le stime si pensa che tra i 12 e i 18 milioni di azeri vivano oggi in Iran, contro gli 8 milioni che vivono in Azerbaigian).
3. Procedere lungo la via del dialogo panislamico andando persino oltre l’ottomanismo, per sfruttare appieno le possibilità turche di costruire un ruolo-guida all’interno del mondo islamico nella sua globalità, in base a due piani di ulteriore proiezione strategica:
a. il primo prevede l’espansione della sfera d’influenza turca sino all’Afghanistan e al Pakistan, senza tuttavia spiegare come questa si possa conciliare con il rilevante ruolo che la Turchia ricopre da un decennio nel quadro della coalizione a guida statunitense ISAF, con il fallimento dell’Af-Pak Strategy di cui l’ISAF è stato strumento negli ultimi tre anni e con la fortissima alleanza militare ed economica sussistente tra Pechino e Islamabad.
b. il secondo guarda spavaldamente alla possibilità di estendere questa proiezione agli scenari oceanici, nel tentativo di allacciare solidi rapporti con la Malesia e con l’Indonesia, senza però spiegare per quale ragione una nazione priva di sbocchi tanto sull’Oceano Indiano quanto sull’Oceano Pacifico dovrebbe rivendicare un ruolo strategico così importante sullo Stretto di Malacca.

Nella loro prima fase, le cosiddette “primavere arabe” hanno segnato un grande successo per la Turchia che – dopo essersi accreditata come un riferimento di peso a seguito della crisi con Israele nel 2010 – ha potuto piazzare una serie di “colpi” in Tunisia, in Marocco e in Egitto, dove le nuove dirigenze politiche hanno già affermato in più di una circostanza di guardare alla linea-guida dell’AKP come ad un modello esemplare nella costruzione di sistemi politici ed economici che seguano la via postkemalista imboccata da Ankara, inquadrata come un positivo percorso che affianchi una notevole capacità di modernizzazione economica ed industriale ad un conservatorismo sunnita non meglio specificato. Lo stallo siriano ha però bloccato i piani espansionistici di Erdoğan, mostrando al mondo come il “risveglio islamico” propagandato in un primo momento dalle potenti emittenti satellitari del Qatar e dell’Arabia Saudita non fosse altro che un piano di destabilizzazione cavalcato, se non del tutto innescato, dalle potenze della NATO, e partecipato da migliaia di mercenari jihadisti provenienti dai numerosi campi di addestramento che dal 1980 al-Qaeda sta dislocando in giro per il Vecchio Mondo tra Europa, Asia e Africa, col supporto delle intelligence statunitense e britannica.
La rottura dei rapporti con la Siria e con l’Iran ha sancito definitivamente l’indirizzo strategico impresso da Ankara alle direttrici del suo cosiddetto progetto neo-ottomano, che nella fase attuale può godere del manifesto appoggio di Washington e degli altri alleati atlantici, come dimostrato dalle reazioni e dai messaggi di solidarietà inviati da tutti i rappresentati dei Paesi della Nato poche ore dopo il crescendo militare scatenatosi al confine con la Siria. È del resto evidente che, agli occhi dell’Occidente, la Turchia appare come il solo attore affidabile per la realizzazione del progetto di ridefinizione geopolitica dell’area, caldeggiato da Washington sin dagli anni Novanta attraverso l’introduzione del piano relativo al cosiddetto “Grande Medio Oriente”.

La Siria è un ostacolo per i progetti espansionistici della Turchia principalmente per due ragioni. In primo luogo essa è posizionata nel cuore dell’ipotetica direttrice panislamica di cui si è detto in precedenza e nel cuore del Vicino Oriente, in un’area-ponte che separa il territorio turco da quello egiziano e dalla Penisola Araba, dove entro un decennio le vecchie monarchie wahabite al potere, per ora tatticamente alleate di Ankara nella comune destabilizzazione del governo di Bashar al-Assad, potrebbero crollare lasciando un immenso vuoto di potere verso una transizione repubblicana, che vedrebbe senz’altro la Turchia recitare un ruolo fondamentale in un’area decisiva dal punto di vista energetico. In secondo luogo, dopo la caduta della Libia di Gheddafi, la Siria è, assieme all’Algeria, l’ultima residuale testimonianza politico-culturale di un panarabismo in fase calante ma evidentemente ancora capace di mobilitare le masse popolari contro i tentativi di assoggettamento da parte di un attore non-arabo come la Turchia.
Con l’intervento militare eseguito due giorni fa ai danni di obiettivi strategici siriani, la prassi geopolitica turca ha definitivamente compiuto un salto di qualità determinante, abbandonando l’iniziale atteggiamento tattico della dottrina Davutoğlu, imperniato sull’esclusività del soft-power e sulla formula “zero problemi”, per sconfinare – dopo una fase di transizione contraddistinta da un supporto politico-logistico esterno in favore dell’Esercito Libero Siriano – nella dimensione hard-power, intervenendo direttamente e mostrando un volto aggressivo e pragmatico relativamente nuovo nei confronti della Siria, anche se non certo inedito nel generale quadro strategico-militare della Turchia moderna.
È ipotizzabile che questo neo-imperialismo turco, ancora in fase embrionale, possa ben presto smarcarsi dalla rigida riconduzione ai piani della NATO cui è stato fino ad oggi costretto, e forse addirittura scontrarsi con i piani di alcuni Paesi occidentali o con Washington stessa. Molto dipenderà anche dalle elezioni presidenziali per la Casa Bianca e dalla politica estera che gli Stati Uniti adotteranno nei prossimi quattro anni. Tuttavia, in questo senso, poco importa quali saranno le evoluzioni nei rapporti tra Ankara e gli altri alleati atlantici: le velleità espansionistiche e l’aggressività militare messe in mostra di recente dalla Turchia rischiano di sconvolgere per lungo tempo la pace e la stabilità di numerose regioni del continente eurasiatico. E a Washington, in fin dei conti, potrebbe bastare anche questo.



Fonte: www.statopotenza.eu

 
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