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Ungheria. Resoconto di una manifestazione nell'interesse dell'alta finanza

(ASI) Budapest - E’ un caldo e umido tardo pomeriggio di settembre, a Budapest, quando nel piazzale antistante al Parlamento iniziano a formarsi i primi assembramenti di persone. Controllati dalla serafica ma vigile polizia ungherese, nel giro di poche decine di minuti confluiscono a centinaia, semplici cittadini ma soprattutto gruppi organizzati dall’opposizione.


L’accalcato palchetto riservato ai giornalisti è un valido punto di vista dal quale scorgere tra la folla una presenza cospicua di bandiere dell’Alleanza dei Democratici Liberi (maggior partito di centrosinistra) e del movimento Szolidaritás (che ricalca nel nome e nel simbolo lo storico sindacato polacco Solidarność).

Il raduno ha lo scopo di esprimere disapprovazione nei confronti della linea intrapresa dal governo di Viktor Orbán per gestire un delicato contenzioso internazionale. Si tratta dell’estradizione concessa da Budapest nei confronti di Ramil Safarov, ex ufficiale azero, condannato per l’omicidio di un militare armeno. La storia risale al 2004 ed ebbe luogo in Ungheria, durante un’esercitazione Nato. Safarov compì l’efferato gesto a colpi d’ascia introducendosi di notte nella camera della vittima. Condannato all’ergastolo dalla giustizia magiara nel 2006, pochi giorni fa è tornato in patria, non più da ergastolano bensì da uomo libero. Il proprio Paese gli ha infatti concesso la grazia e lo ha accolto come un eroe. Il fatto ha rinfocolato vecchi rancori bellici tra Azerbaijan ed Armenia, in guerra fino al 1994 per il controllo della regione del Nagorno Karabakh.

Nell’occhio del ciclone è finita anche l’Ungheria, rea di aver concesso l’estradizione. L’Armenia ha per questo sospeso i rapporti diplomatici con il Paese magiaro. Dal canto suo Budapest si difende sostenendo di aver agito in conformità con la Convenzione di Strasburgo del 1983, la quale autorizza il rimpatrio di un condannato cittadino di un altro Stato firmatario del documento. Chi ha violato gli accordi, semmai, è l’Azerbaijan, cui il governo ungherese in una nota ufficiale rimprovera un comportamento “contrario alle norme della legge internazionale e in clamorosa contraddizione con la promessa, confermata ufficialmente subito prima del trasferimento, che al detenuto sarebbe stata imposta la prosecuzione della condanna in Azerbaijan”.

La dimostrazione di aver rispettato una convenzione internazionale non è tuttavia bastata al governo ungherese per placare il clima di disappunto nei suoi confronti. Un clima già storicamente caldo, arroventato però nel gennaio scorso, quando l’entrata in vigore di una nuova Costituzione ha reso manifeste le ambizioni di sovranità nazionale proclamate dal partito di governo Fidesz. Una fitta campagna mediatica occidentale si è scagliata quindi contro l’Ungheria, ritenuta membro dell’Unione europea riluttante all’idea di allinearsi ai diktat finanziari e dunque un pericoloso esempio di affrancamento dal giogo mondialista. Il metodo di diffamazione più usato è stato l’accusa di autoritarismo anti-democratico, si è diffuso l’accostamento di Viktor Orbán alla figura di un satrapo dittatore, un minaccioso editoriale del Washington Post tempo fa annunciava l’esigenza di imporre misure atte a neutralizzare “l’avamposto ungherese”. L’ingerenza occidentale in questioni interne all’Ungheria ha così sobillato gli animi dell’opposizione, avida di pretesti utili a far germinare di nuovo le tensioni dell’inverno scorso.

La manifestazione in scena davanti al Parlamento ungherese, se guardata in filigrana, lascia scorgere la sua natura pretestuosa contro Viktor Orbán. Per questa data era già stato programmato, d’altronde, un presidio anti-governativo. Il motivo sarebbero state le misure introdotte in materia di istruzione. Il sopravvenuto contenzioso con i due Paesi caucasici ha però fornito agli organizzatori un argomento capace di raccogliere maggior cassa di risonanza; ecco dunque che le questioni scolastiche sono state accantonate a beneficio del “caso diplomatico”. La rappresentanza della comunità armena d’Ungheria al presidio è estremamente scarna (quattro persone con bandiera nazionale al seguito), pochissimi i giovani, il grosso della manifestazione è costituito da gente anziana, alcuni reduci forse dalle università occidentali occupate nel ’68. Si intonano costantemente cori contro il presidente Orbán e il suo partito Fidesz, l’uscita della macchina presidenziale dal Parlamento è accompagnata da rumorosi fischi e urla di dissenso. E’ il momento in cui il livello di passione della piazza raggiunge il picco più alto, dopodiché si assiste soltanto a stanche riviviscenze dei cori intonati all’inizio, dello sventolio delle bandiere partitiche, dell’esibizione di cartelloni.

Provo a sfruttare l’atmosfera tediosa per avvicinarmi a qualche partecipante e rivolgergli delle domande. Il primo a rispondermi è Gyorgy, presente alla manifestazione insieme a sua moglie. Cerca di spiegarmi che è “vergognoso” perché dietro l’estradizione vi sarebbe un accordo tra Azerbaijan e Ungheria sulla base di un acquisto da parte degli azeri di bond del tesoro ungherese per un totale di circa 3 miliardi di euro. La tesi complottistica di Gyorgy, tuttavia, è presto smentita dallo stesso governo ungherese, che ha garantito giorni fa che non metterà in programma l’emissione di bond del tesoro in valuta straniera prima di accordarsi con il Fondo monetario internazionale (accordo che, proprio in queste ore, l’Ungheria ha nuovamente escluso). Un altro manifestante prodigo di favella con la stampa europea si chiama Viktor, curiosamente come l’oggetto delle sue invettive, il presidente Orbán. E’ un uomo sulla sessantina, alto e con una lunga chioma di capelli grigi raccolta sulla schiena. Lo sorprendo demolendo l’immagine che credo egli abbia maturato del giornalista occidentale medio, mero diffusore della retorica anti-Orbán. Gli chiedo se non crede che la linea intrapresa dal governo del suo Paese possa rappresentare un sussulto di sovranità nazionale capace di far fronte all’inesorabile crisi del mercato globale. Egli mi risponde dapprima in modo epigrafico con un secco “no, assolutamente”, per poi aggiungere: “Questo signore (Orbán, ndr) vuole spedire il Paese nelle tenebre dell’autoritarismo. E’ inaccettabile per il popolo ungherese, che tanto ha lottato per entrare a far parte del mondo libero”.

Lo ringrazio per la disponibilità e mi allontano meditando su quanto paradossale sia la cultura moderna, di cui sono imbevuti gli indefessi alfieri del cosiddetto “mondo libero”. Libero da uomini politici che sciolgono i soffocanti lacci della finanza internazionale; che esaltano la dignità dell’essere umano opponendosi all’aborto e affermando il valore cristiano della famiglia; che rilanciano l’identità nazionale minacciata dal propagarsi dell’omologazione culturale anglo-americana. Libero da governanti come Orbán, infestato da banchieri e commissari. Dubito che i “ragazzi di Budapest”, nell’ottobre 1956, si siano battuti contro la barbarie comunista per affermare questo mendace concetto di libertà.

Da Budapest Federico Cenci per Agenzia Stampa Italia


                                                                              

 

 
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