Mai nei ultimi trent’anni si è assistito ad un fermento sociale, tale, da sconquassare qualsiasi tipo di posizione predefiniti e detronizzare apparenti monopoli di rappresentanza delle categorie lavoratrici. Nel campo politico, della dicotomia “destra – sinistra”, sia in quello sindacale.
E sono questi i due grandi assenti, politica e sindacato, tra le file dei manifestanti che dal 9 dicembre irrompono energicamente nelle strade, al grido di “sovranità e giustizia sociale”; racchiusisi nell’omonimo “Coordinamento 9 dicembre”.
La politica del “politicamente corretto” e “delle larghe intese”, impreparata a situazioni del genere, tenta lo scatto di “reni” declassando la pretesta, ribattezzata dei forconi, come espressione di una residua minoranza e allerta, come affermò Alfano qualche giorno fa, che tentativi di blocco dello Stato non saranno accettati e minacciando forti ritorsioni contro chi si opponga al normale vivere sociale.
Il Presidente del Consiglio, Letta, dal canto suo, ha espresso nell’appena passato voto di fiducia un severo monito al crescente populismo demagogico ed annuncia che contro di esso “combatterò come un leone”. Sperando, sempre, che “il forcone” non tolga la criniera al grosso felino, trasformandolo in un miagolante gattino troppo cresciuto.
Ancora, il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha parlato ieri di “deriva rivoltosa nei confronti delle istituzioni Italiane ed Europee”, puntando il dito contro il Movimento 5 Stelle e non ben identificati gruppi di estrema destra, “interessati”, secondo egli, “ad intercettare qualunque forma di malessere sociale”.
Ma la situazione è calda, caldissima!
Dopo cinque giorni di protesta, il bilancio è davvero “allucinante”.
I tir e i camion bloccano le autostrade. Nelle città da Torino a Roma, da Milano a Bari, fino alla natia terra della protesta, la Sicilia! Fiumi di persone si riversano nelle strade fermando materialmente l’animosità lavorativa e sociale su tutto il territorio nazionale, con quella veemenza che solo i grandi avvenimenti cataclismici possono partorire.
Si respira un’aria Weimaristica.
Il sindacato per eccellenza, la C.G.I.L., e le sue controfigure politiche ed associative, P.D., S.E.L., A.N.P.I. ed organizzazioni studentesche di sinistra. Sentendosi altamente spodestate in “casa loro”, denunciano il finto sommovimento dei lavoratori di questi giorni, utilizzato ad arte da frange della borghesia insieme a qualche movimento neofascista. E frettolosamente organizzano presenze di piazza dove spiegano, ad avviso loro, la reale natura “dei forconi”, e preparano una manifestazione nazionale della C.G.I.L. – F.I.O.M. a Roma, prima che la loro “demarcazione territoriale” nelle proteste sociali, possa essere sostituita da quella di qualcun altro. Ma, come già detto, anche nel campo delle rivendicazioni delle categorie del lavoro, quello che in questi giorni sta accadendo ha dell’eccezionale. I rossi vessilli della C.G.I.L. sono stati ammainati. Un'eclissi è scesa su S.E.L. e Rifondazione. Dei rivoltosi dell'arcobaleno, dei protestatari "viola" e dei "se non ora quando?!" non c'è stata traccia. Tutti si sono nascosti dietro le loro sedi, e hanno cercato di affogare la rivolta bollandola come "rigurgito fascista" cercando di affogare la loro inesistenza nei cuori e nelle menti del mondo del lavoro. Ma i Lavoratori con la elle maiuscola, stanno marciato! Le rosse bandiere calpestate, hanno lasciato spazio al Tricolore elevato.
Ma oltre il disordine, la vera rabbia che l’establishment prova nei confronti di questa manifestazione popolare. La vera repulsione, è la sua generalità ed anonima appartenenza politica.
Gente di ogni dove e di ogni estrazione politica è scesa nelle strade gridando la propria stanchezza verso dei dirigenti nazionali chiusi nei loro “salotti buoni”, tra favolette di mostra degli attributi d’acciaio verso Bruxellese e rigorosa schizzinosità democratica verso le migliaia di famiglie che quotidianamente si trascinano nelle strade, difronte a quell’orribile spettacolo di opulenza trasudante dai “palazzi del potere manifesto”.
Ma proprio per questa moltitudine di “sensibilità”, pericolosa per i servi canoni d’ irreggimentazione dello status quo, la politica delle alte sfere nazionali tenta di sua iniziativa di dare un colore a questi protestatari.
Giornalisti, esimi analisti politici si “scannano”, nel programma televisivo di commento politico – sociale di turno, per dare patenti d’identità ai occupanti delle piazze. Prima dicono che sono degli elettori delusi del centro – destra, poi affermano, sulla base di un appoggio “morale” e militantistico (privo di simboli) di qualche organizzazione nazionalpopolare, che sono manovrati da estremisti di destra. Dopo di che li qualificano come dei disgraziati che la disperazione li ha portati ad una protesta priva di proposta. In fine, quando si rendono conto che le qualifiche esistenti non bastano, allora li licenziano con il marchio di “qualunquisti”, che non fa mai male.
In mezzo a questa gara di nomi, la politica, intanto, continua a fare quello che gli riesce meglio, ovvero la inconsistente “chiacchiera parlamentaristica”. Fatta di numeri, P.I.L., Spread, come il verbo del “politichese” insegna. Sembra di assistere a qualcosa che si è già visto. Un déjà vu si staglia all’orizzonte, prendendo il nome di Romania e Polonia all’indomani della fine della cortina di ferro. Dove quei regimi vivendo solo nelle televisioni, bollavano la popolazione manifestante come l’espressione di minoranze violente, mentre nelle piazze, quello stesso popolo, ben differente dall’essere minoritario, scavava la fossa ai suoi capi nazionali.
Federico Pulcinelli