Spigolature intorno al mito di ER, nella Repubblica di Platone

Spigolature intorno al mito di ER, nella Repubblica di Platone di Carlo Di Stanislao

 Ogni azione ha le sue conseguenze

"A lo dire abbi misura"

Motto araldico della famiglia Melatino di Teramo, XV secolo

 

La Repubblica di Platone presenta nel finale del suo ultimo libro un mito, il MITO DI ER, per cui l’uomo che vuole essere fedele al suo compito di praticare la giustizia si trova di fronte al problema del suo destino. Er è l’eroe guerriero della Panfilia, morto in guerra, il cui corpo ritrovato dopo 10 giorni, viene portato su una pira. Due giorni dopo si ridesta e racconta quel che ha visto nell’aldilà. Ma come mai la Repubblica termina con questo mito? In un certo senso, è coerente questa proposizione del libro II, per cui "se una città è più grande di un individuo, nel campo più grande ci sarà una più grande giustizia e più facile da apprendere, per poi applicare all’individuo singolo la conformità con il modello più grande". Quindi è solo alla fine dell’intero dialogo che si pone il problema dell’individuo e della sua sorte.

 

Interessante è la parte centrale sulla scelta delle anime alla reincarnazione. Uscite dalle voragini del cielo e della terra dopo un viaggio di 1000 anni, ed una sosta di 7 giorni, le anime si dirigono per 4 giorni verso la luce della circonferenza del cielo, alle cui estremità è appeso un fuso tenuto a piombo da 8 vasi concentrici, che rappresentano gli otto cieli (Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Venere, Sole, Luna e terra), fuso che gira sulle ginocchia di Ananke, con accanto le tre Parche (Moirai), Lachesi, Cloto e Atropo per il passato, il presente e il futuro.

 

Dice la Parca Lachesi: "Non è il dèmone che sceglierà la vostra sorte, ma siete voi che sceglierete il vostro dèmone. Il primo che la sorte avrà designato sarà il primo a scegliere il tenore di vita al quale sarà necessariamente legato. La virtù è libera a tutti; ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia. Ognuno è responsabile del proprio destino, la divinità non è responsabile". (Repubblica, X, 617 e).

 

Le anime scelgono tra i modelli di vita in gran numero offerti loro. In parte dipende dal caso in quanto i primi hanno maggior offerta ma anche gli ultimi hanno diverse scelte per avere una vita felice. Quindi il daimon che presiede alle sorti di ognuno in realtà dipende dalle scelte che facciamo noi. Le anime migliori scelgono talora male "perché non sono stati provati dalle sofferenze" e si fanno abbagliare da vite ricche e potenti, che celano infelicità e male. 

 

Spesso si sceglie in base alla esperienza fatta nella vita precedente, come Ulisse che memore dei vecchi travagli sceglie una vita oscura e modesta. Dice Socrate: "E’ questo il momento più pericoloso dell’uomo ed è perciò che ciascuno di noi, trascurando tutte le altre occupazioni, deve cercare di attendere soltanto a questo: scoprire e riconoscere l’uomo che lo metterà in grado di discernere il genere di vita migliore e di saperlo scegliere" (618 c). E la vita migliore è quella che adotta la giustizia e la saggezza.

 

Le anime bevono le acque del Lete e a mezzanotte con un terremoto nascono, tranne Er, che non avendone bevuto, si risveglia sulla pira funeraria con la memoria del suo mito. Il mito di Er chiude il dibattito sulla giustizia presente nella Repubblica, la virtù che l’uomo deve assumere per svolgere bene il suo compito in vita. Vediamo le conclusioni su questo mito di Socrate a Glaucone: "Abbiamo eliminato tutte le altre considerazioni circa la giustizia, senza mettere a profitto né i compensi né la buona reputazione…ma abbiamo trovato che la giustizia è il bene supremo per l’anima considerata nella sua vera natura e che perciò questa deve fare quello che è giusto".

 

E Socrate conclude con queste parole: "È così, Glaucone, che ci fu conservato questo racconto senza andare perduto, racconto che può salvarci, se gli diamo fede; e allora traverseremo felicemente il fiume Lete e non ci macchieremo l’anima. Ma se voi darete retta a me, convinti che la nostra anima è immortale e capace di soffrire tutti i mali come di godere tutti i beni, noi seguiremo sempre la via che conduce in alto, e praticheremo in ogni modo la giustizia insieme con la saggezza. Così noi saremo amici a noi stessi e agli dei, non solo mentre viviamo qui, ma anche quando avremo riportato i premi della giustizia, come i vincitori dei giochi che raccolgono i doni degli amici, e saremo felici tanto su questa terra quanto in quel viaggio di mille anni che abbiamo descritto"(fine del libro 10).

 

Queste parole chiariscono in modo definitivo il significato ed il valore del racconto dell’eroe Er. Il mito di Er chiude i 10 libri della Repubblica, è il sigillo di tutta l’opera. Ma se questo è chiaro, allora il racconto mitico, che qui Platone esalta, dimostra tutta la validità euristica e non favolistica del mito, in opposizione alle tesi sostenute altrove dello stesso Platone, dimostrando che ognuno è responsabile del suo destino ed è felice se sceglie di essere giusto e saggio.

 

Perché i nostri politici non leggono questo mito? Perché cerchiamo in Oriente nel karma e nel dharna ciò che anche la nostra cultura tradita aveva detto e sancito? Una riflessione. Socrate parla molto brevemente anche delle ricompense che il giusto ottiene in vita, ma spiega che solo dopo la morte si ottiene ciò che è più importante con un grande mito conclusivo: il racconto di Er. Il mito di Er, come il racconto sul giudizio dei morti nel Gorgia, è posto al termine della Repubblica

 

Socrate sottolinea il carattere quasi filosofico – e non poetico – del mito, quando, presentandolo, precisa che non si tratta di un apologo di Alcinoo (614b), cioè di una storia come quelle narrate da Odisseo, creazione omerica notoriamente mentitrice, al re dei Feaci. Qualcosa di simile Socrate aveva fatto anche a proposito del giudizio dei morti (Gorgia, 523a ss.), quando l’aveva introdotto come un logos con l’apparenza di un mythos.

 

Tuttavia, fra il racconto di Er e la narrazione del giudizio dei morti esiste una importante differenza, per quanto entrambi siano storie sui morti narrate da un morto: Er è uno che ritorna dall’oltretomba, in modo tale che la sua morte non è una semplice contrapposizione alla vita, ma la possibilità di una nuova vita, diversa e migliore. Socrate è morto, ma il suo pensiero non rivive in un’anti-città, come nel Gorgia, bensì qui e ora, se è possibile continuare a discutere e costruirci vite diverse e forse migliori.

 

Il mito di Er, come il giudizio dei morti del Gorgia, narra innanzi tutto di un giudizio. Nel Gorgia, questo giudizio è dato una volta per tutte, sebbene soltanto i tiranni siano condannati a pene eterne. Qui, invece, la metempsicosi rende quasi tutte le sentenze temporanee: le anime, dopo mille anni di espiazione o di ricompensa nel mondo ultraterreno, ritornano a vivere e hanno la possibilità di saggiarsi indefinitamente.

 

La posizione e il carattere del mito di Er ci permettono di rifarci ad esso per corroborare la tesi interpretativa secondo la quale, nella Repubblica, la physis di una creatura non è qualcosa di dato in anticipo e una volta per tutte, ma quel che si può osservare dopo averla messa alla prova. E il tempo della prova – racconta Er – dura indefinitamente. Platone, in altre parole, non crede che soggetti liberi possano essere legati ad una identità, cioè a un frammento di informazione che appartiene peculiarmente a un individuo o a un gruppo.

 

Come nel giudizio dei morti del Gorgia, solo ai tiranni e agli animi tirannici sono riservate punizioni definitive e irreversibili. Solo i tiranni, infatti, bloccano completamente la discussione e l’apprendimento con la loro violenza e la loro sete di potere. Essi, rifiutando di imparare e di confrontarsi con gli altri, sono gli unici che hanno una identità, cristallizzata in una pena eterna – una pena connessa alla monotonia della loro anima. Il principio supremo del reale è, per Platone, il bene come superiore potenzialità: il tiranno, con la sua rigidezza e la sua dipendenza dal potere in atto è il suo esatto opposto.

 

La tirannide, per dirla alla maniera di Gentile, è atto puro, proprio perché esiste solo nella misura in cui il suo potere funziona e agisce. Per questo la punizione che si merita, in un mondo ove tutto il resto è potenziale e sempre in evoluzione, è definitiva. Chi non sa mettersi alla prova, è condannato alla ristrettezza e alla meschinità della propria identità. Il tiranno è un privatizzatore, che non sa nulla in comune con gli altri ed è dunque condannato a sapere soltanto di se stesso. Non è meglio questo di ciò che scrive un Dalai Lama che insidia i bambini?

 

Le punizioni e le ricompense che vengono assegnate alle altre anime non sono definitive: questo testimonia il loro carattere educativo. La disposizione a imparare è ciò che distingue chi non è tiranno da chi lo è: questa disposizione è connessa ad una interpretazione dell’anima, il sensorio della conoscenza, come qualcosa di interpersonale, non legato a una identità storica individuale.

 

Un’altra differenza fra il racconto di Er e il giudizio dei morti del Gorgia è il fatto che, mentre il secondo viene narrato come un mito, che rielabora esplicitamente materiali omerici, il primo è riportato come il resoconto dell’esperienza di una singola persona, di quello che ha visto e ricorda. La storia della libertà non è una favola ripetuta dai poeti, ma la il resoconto di un protagonista che ha visto le vicende che narra.

 

 

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