(ASI) Pontedera, Pisa. Debutto nazionale, al Teatro Era, della nuova versione de Il Padre di August Strindberg per la regia e l’interpretazione di Gabriele Lavia. Un testo e uno spettacolo per ridiscutere di paternità, maschile e femminile, libertà di scelta, stereotipi sociali.
Per la terza volta Gabriele Lavia rilegge Strindberg e lo fa sprofondando al centro di un palco rosso sangue, morbido (nel doppio senso del termine) come quei velluti che rivestono per intero la scena, direttamente calati da un paradiso tanto utopico quanto irraggiungibile. Lo fa con una notevole credibilità (soprattutto nel primo tempo), circondandosi però di donne che, al contrario, paiono stereotipi retrivi dell’essere femminile - nelle tre età della vita, come da enigma della sfinge. Una bambina di quattordici anni, interpretata da un’attrice adulta che, con vocina melliflua, incarnerebbe l’amore cieco dell’infante verso i genitori. La moglie, Laura, che non riesce a trovare una propria collocazione storica o una dimensione psicologica attorale precisa - passando dalla primadonna ottocentesca leziosa, alla staticità del dramma dialettico (emblematico lo scontro tra la sua mimica ridotta all’osso, mentre siede in poltrona, e il marito/capitano/Lavia in un passaggio mattatoriale), per finire con un realismo solo cerebrale che non spiega le emozioni e le contraddizioni di una donna, costretta dalla legge dell’epoca e dal perbenismo sociale, prima, a sposarsi e a partorire una figlia, e poi a sbarazzarsi del marito con un sotterfugio ignobile ma l’unico concessole per essere finalmente indipendente a livello economico e di scelte personali. Per finire con la vecchia tata, che appare più come la strega di una qualunque fiaba dei fratelli Grimm e, in questo, sembra quasi emanazione della fanciullezza perduta del capitano più che personaggio reale - insieme saggio e compassionevole.
Come Cesare Cases sottolinea nella prefazione a Teoria del dramma moderno di Peter Szondi, in Strindberg ci sarebbe (secondo lo stesso Szondi) uno svuotamento del rapporto interumano e, infatti, le letture psicanalitiche (ma non solo) tradurrebbero Il Padre nel dramma della psiche di un pater familias, che vede venir meno quel ruolo che la legge gli garantirebbe - ossia di possedere per intero e in assoluto il patrimonio della gens. Un maschio, più figlio che padre, pusillanime nelle sue vanità di onori e gloria, irrisoluto, che agogna al seno materno ma considera quella stessa donna/madre, unica in grado di procreare (e, per questo, oggetto di invidia), un essere in fondo inferiore, incapace di raziocinio, sventata perché in preda agli istinti. Come questa visione della donna, nel personaggio del capitano, si concili con l’auspicio di far studiare la figlia e di saperla - in caso non si sposi - in grado di lavorare e di mantenersi da sola, non è dato saperlo. Ma se il protagonista fosse (come teorizzato nel libro di Szondi) solo un’espressione monologante delle proprie insicurezze emotive e psicologiche, ecco allora che si spiegherebbero anche tutte le evidenti contraddizioni. In questo spettacolo, però, la lettura psicologica è solo parziale (soprattutto nel secondo tempo, che sembra studiato per mettere in scena più le contorsioni mentali del capitano che l’effettivo, o realistico, finale del dramma).
La contemporaneità di Strindberg si intravvede nelle pieghe, più che nei passaggi della pièce. E alcuni temi, infatti, sono ben chiari nell’intero spettacolo, sebbene riletti stranamente in chiave antistorica. Tra questi, la libertà dei figli di scegliere per il proprio futuro, indipendentemente dalle mire genitoriali; la contrapposizione tra la ragione e una fede superstiziosa o bigotta (praticata, guarda caso, solo dal genere femminile); la necessità economica o il perbenismo quali uniche motivazioni per i coniugi di rimanere insieme, aldilà dei loro affetti reali; e, soprattutto, la questione del possesso (genitoriale, maschile) che non ammette ribellione (e di cui sono prova, ancora oggi, i casi di violenze domestiche e i femminicidi). Detto questo, ci si domanda come si possa tratteggiare a martire il personaggio del capitano, che non impazzisce tanto per il tranello della moglie (che gli fa credere che la figlia non sia sua) quanto perché vittima di se stesso e del suo maschilismo egocentrico - di quel padre/padrone che non può accettare si mettano in discussione i suoi possessi, ossia il corpo, la volontà e la mente della figlia (e/o della moglie). E come si può tratteggiare a martire il maschio che, perdendo quello stesso possesso, tenta prima di dar fuoco alla moglie lanciandole contro un lume a petrolio (è solo del 3 agosto 2016 il decesso della donna bruciata viva dall’ex compagno), e poi di sparare alla figlia.
Strindberg era misogino (e non c’è bisogno di leggere L’autodifesa di un folle per capirlo). Forse per motivi autobiografici, forse perché in quel periodo storico (tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento) una nuova donna si stava affacciando sul palcoscenico della storia. Una donna che - da Ibsen alle suffragette, dalle fabbriche in periodo bellico alle lotte contadine, dai laboratori alle università - stava acquistando coscienza della propria forza, psicologica e intellettuale, mettendo in crisi ruoli e stereotipi.
Oggi, a distanza di oltre un secolo, tra mille difficoltà e ben consce che la strada verso la vera parità e l’autodeterminazione femminile, verso un potere finalmente condiviso e la possibilità di esercitarlo con mezzi diversi da quelli maschili (proprio perché è la differenza di genere la grande conquista e non l’accettazione passiva di modelli sclerotizzati) è ancora lunga, le donne sono però sempre più presenti nella società e in grado anche di dire no. Forse questo spettacolo fotografa proprio questa situazione: l’incapacità del maschio, nel 2018, di trovare un proprio ruolo, che non sia più quello del pater familias, del padre/padrone, bensì di un uomo riconciliato con le proprie contraddizioni e pronto al dialogo (e non più alla lotta) con l’altro sesso.
Simona M. Frigerio - Agenzia Stampa Italia
Foto: ph. Tommaso Le Pera