Goffredo Palmerini
L’ALTRA ITALIA E LE MIGRAZIONI NEI TESTI BIBLICI
di Gianni Carozza *
Sono molto grato a Goffredo Palmerini per la sua presenza qui oggi a Tornareccio insieme con la sua famiglia, a cui per diversi motivi sono legato da tempo. L’idea di presentare il suo ultimo libro anche nel nostro paese è nata quasi per caso durante l’ultimo viaggio in Israele che insieme a sua moglie Anna e a diversi amici aquilani abbiamo compiuto nel gennaio scorso. Ho avuto più volte il grande piacere in questi mesi di visitare Paganica, popolosa frazione dell’Aquila, tristemente nota per essere stata colpita da terremoto del 6 aprile del 2009, in cui Goffredo vive con la sua famiglia e dove, con tanta passione e meticolosità, scrive per le comunità abruzzesi nel mondo mantenendo un filo diretto costante con loro. Ed era ormai giunta l’ora di fargli conoscere anche la realtà di Tornareccio, che – come tante altre comunità locali – è stata per quasi un secolo contrassegnata da un’emigrazione pressoché interrotta, protrattasi almeno fino agli anni ’70-80 (Belgio, Svizzera, Francia, Germania, Argentina, Stati Uniti, Brasile, Australia) e che quindi ha tanti suoi figli sparsi nel mondo.
Le cause di questo fenomeno, come è noto, vanno ricercate già all’indomani dell’Unità d’Italia, un’epoca nella quale la nostra regione versava in una situazione economica tra le più difficili dell’intero paese. Il nostro era un territorio ancora caratterizzato da un sistema produttivo pre-moderno, i cui principali strumenti d’integrazione lavorativa e sociale rimanevano quelli della transumanza verso le terre del Tavoliere e dell’Agro romano. Pur se al prezzo di enormi sacrifici personali, soprattutto nel dopoguerra, molti nostri concittadini in diverse ondate migratorie hanno lasciato il paese in cerca di speranza e di un futuro migliore. Vi assicuro che è davvero commovente sentire raccontare le loro avventure e occasioni come queste ci aiutano a ricordare che quello che noi siamo oggi è anche grazie a loro. Ci tengo inoltre a dire che io stesso sono figlio di un emigrato: mio padre ha lavorato per quasi otto anni in Svizzera e diversi membri della mia famiglia sono tuttora sparsi in varie parti del mondo: penso soprattutto ai parenti dell’Argentina, degli Stati Uniti e della Svizzera. Una storia poi che ha caratterizzato da vicino la mia vita non posso non raccontarla. C’è qui mia madre che è l’ultima di nove figli; la prima figlia è emigrata a La Plata in Argentina nel 1950, mia mamma è nata invece l’anno successivo, cioè nel 1951; mia zia è tornata per la prima volta qui in paese soltanto nel 1991, ben quarantuno anni dopo la sua partenza: solo allora le due sorelle si sono potute conoscere!
Grazie dunque al sindaco, Nicola Pallante, per aver organizzato questo evento e grazie soprattutto a te, caro Goffredo, che con il tuo lavoro, i tuoi articoli, la tua sensibilità e la tua mediazione mantieni sempre viva questa preziosa memoria e fai sì che anche noi possiamo conoscere la variegata esperienza di tanti abruzzesi che sono all’estero, che sono fieri delle loro origini e che hanno portato nel mondo le nostre tradizioni più belle e i nostri valori più grandi. Molti si chiederanno: cosa ci fa un prete alla presentazione di un libro sugli emigrati e sugli abruzzesi nel mondo? Domanda lecita! Anche perché ci sono accanto a me persone il cui volto è molto conosciuto e la cui esperienza rispetto alla mia è davvero enorme. La colpa è di Goffredo Palmerini che ha voluto a tutti i costi anche un mio intervento. Saranno ovviamente lui e Giulio Borrelli a parlarci delle comunità degli abruzzesi del mondo e dei contributi presenti in questo libro. Essendo io soprattutto un biblista, vorrei approfittare di questa occasione per evidenziare brevemente come la Bibbia dedichi numerosi riferimenti alle relazioni interpersonali, e non solo a quelle che spiegano l’interazione tra i membri del popolo dell’alleanza, ma anche a quelle che coinvolgono gruppi di diversa estrazione etnica. La Bibbia, non dimentichiamolo, soprattutto nell’Antico Testamento, è la storia di un popolo a contatto con altri popoli.
Perché parto dalla Bibbia? Perché per molti versi sono convinto che essa – come ricorda il card. Carlo Maria Martini – è il libro per il futuro dell'Europa, vale a dire un testo che, in virtù del suo passato e del suo presente, è ancora in grado di orientare a vivere in modo propositivo entro società sempre più multiculturali e multireligiose. In questo contesto la Scrittura appare in grado di raccogliere le grandi potenzialità di una memoria dell’Occidente capace di aiutare a decifrare tempi e momenti nel presente e nel futuro. E perché questa prospettiva divenga realmente efficace occorre che la Bibbia sia colta all’insegna del proprio pluralismo presente nell’intimo snodo ebraico-cristiano che la costituisce. È vero, la Bibbia oggi si presenta a noi soprattutto nella veste di un’opera letteraria; ma essa non proviene dall’astrazione né da pura immaginazione, ma soprattutto dalla sperimentazione, prima, e poi da una caratteristica comprensione e interpretazione della realtà, specialmente di eventi, persone e fatti, alla luce della personale rivelazione divina. La Bibbia, e possiamo dire il mondo, inizia in un contesto di emigrazione. Va infatti ricordato che il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. La Palestina, infatti, è luogo di passaggio, come un corridoio tra l’Egitto e i grandi regni attorno all’Eufrate (Babilonia e Assiria), percorso continuamente da carovane ed eserciti stranieri. È quindi un luogo dove l’esperienza dello straniero è un fatto quotidiano. Del resto Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586 a.C.), molti israeliti furono deportati in Babilonia.
Per andare al Nuovo Testamento, Gesù stesso è migrante e la famiglia di Nazareth si rifugia in Egitto a causa di una persecuzione. Come vedete, alle origini del mondo e della nostra storia ci sono le migrazioni. Sembra quasi che il simbolo dell’esperienza occidentale sia il muoversi verso orizzonti nuovi, orizzonti diversi. Ma per evitare di divagare troppo in un tema vasto e complesso, avendo a disposizione solo pochi minuti, provo a rispondere solo a due domande lasciandomi aiutare da alcuni interventi del card. Martini:
1. Come il popolo di Israele vive l’esperienza dell’esilio?
2. Come è visto lo straniero nella Bibbia? (una domanda che allarga i nostri orizzonti)
Per rispondere alla prima domanda non posso non citare le struggenti parole che l’orante pronuncia nel salmo 136: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: “Cantateci i canti di Sion!”. Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia». L'esilio di per sé non distrugge il rapporto fra Dio e il suo popolo, anzi, mentre ne rende più acuta l’esigenza, lo fa maturare, predisponendo alla conversione e alla redenzione. Costringendo a lasciare Gerusalemme, l’esilio fa comprendere, nel dolore, tutta la profondità e il valore spirituale del Santo dei santi e dei sacrifici, cessati con la distruzione del tempio. La Shekinah, la Gloria di Dio, non lascia per questo il popolo, ma va con lui in esilio in mezzo alle nazioni pagane, continuando a preparare così la diffusione universale del messaggio della salvezza rivolto in principio a un solo popolo particolare.
«In questo senso - scrive Martini - l’esilio di Israele è un caso tipico per ogni fatto simile della storia. L’esilio - così come l’emigrazione - infatti è una situazione dolorosa e spesso drammatica, che, in vario modo, tocca tante persone e tanti gruppi sociali. Anche ai nostri giorni i fenomeni dell’emigrazione, delle guerre, delle fughe di intere popolazioni ci coinvolgono tutti. La risposta esemplare offerta dal popolo ebraico può pertanto essere considerata paradigmatica: nelle situazioni d’esilio o di emigrazione scaturisce più intensa il senso di appartenenza, matura la coscienza della fraternità, si creano nuovi vincoli e strutture di solidarietà». Continua Martini: «Vi sono tante vicende storiche che possono essere interpretate come l’esilio da una patria, da una cultura, da un contesto culturale, sociale e anche politico al quale ci si era abituati e anche un po’ come adattati. In questo senso ogni privazione di un radicamento precedente, di una terra sicura sotto i piedi, di un terreno su cui contare, di un palazzo o di una casa spirituale da abitare con tranquillità è una prova, una sofferenza, spesso anche uno strappo doloroso, un trauma. A esso si può reagire con la rabbia, oppure con una nostalgia rassegnata e passiva, o addirittura con il chiudere gli occhi all’evidenza e non volere che ci sia stato ciò che c’è stato, o volere a tutti i costi il ritorno a ciò che fu. È possibile invece reagire come i profeti hanno insegnato a Israele: riconoscendo la mano di Dio, lasciandosi purificare dalla prova, cercandone il senso».
Per rispondere alla seconda domanda, per quanto riguarda l’Antico Testamento, debbo far riferimento invece al vocabolario che la Bibbia utilizza per definire lo straniero, segno che Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero. Nella Bibbia ebraica sono usati almeno 3 vocaboli:
- “zar”: lo straniero lontano, l’estraneo, il nemico da cui difendersi. Verso questi vi è un senso di estraneità, timore, paura e talora inimicizia, perché essi non sono dei nostri; è la paura che vive un piccolo popolo, circondato da popoli potenti e aggressivi. Essi sono come nemici pericolosi che attentano alle nostre sicurezze.
- “nokri”: lo straniero di passaggio, non residente, irregolare, clandestino. Di lui vengono evidenziati la diversità e la lontananza; si mantengono le distanze, si fanno concessioni, ma non vi è più la paura. La regola che ne emerge è l’ospitalità. Vedi l’episodio di Abramo che accoglie i tre stranieri che passano presso la sua tenda.
- “gher” (o “toshav”): lo straniero residente, inserito nel tessuto sociale. Egli non appartiene al popolo per nascita, ma risiede a lungo con loro. Ha una protezione giuridica ripresa dai testi di legge più antichi: «non molesterai il forestiero, né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Es 22,20). Si ricordino anche le parole del libro del Levitico: «Il Signore parlò a Mosè e disse: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra di Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio”» (Lv 19,33-34).
Possiamo dunque affermare che lo straniero è parte essenziale del racconto di fondazione d’Israele, contenuto nei libri della Legge. Ha scritto Jean Danielou: «Si può dire che la civiltà ha compiuto un passo decisivo il giorno in cui lo straniero da nemico è divenuto ospite».
Anche il Nuovo Testamento ci offre ovviamente spunti di riflessione: in particolare i vangeli ci mostrano Gesù che raccomanda più volte l’ospitalità e che punta molto sull’accoglienza. Egli per primo dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano convertire dalla sua accogliente presenza. Anzi, agli esponenti dell’ortodossia – il «dottore della legge» – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano –: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. Ricorda il card. Martini che c’è però un motivo, che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento, che fonda l’atteggiamento cristiano verso chi è forestiero. È la visuale dei credenti in Cristo i quali si ritengono pellegrini e stranieri in questo mondo: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14; cf Eb 11,10-16).
Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto, costituiva per gli Israeliti un invito all’ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello: "I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera" (Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta preparando.
Ma è il momento di concludere. Per farlo, mi servo di una parabola della cultura tibetana: «Un uomo attraversa il deserto. Da lontano vede come un’ombra. A prima vista le appare come una “bestia”. La guarda con terrore, ma lui deve continuare ad avanzare, non ci si può fermare nel deserto. Avvicinandosi ancora si accorge che l’ombra prende la forma di una “persona”. La guarda ancora con timore, ma deve continuare ad avanzare. Mentre si fa vicino e ne distingue il volto, è preso dalla gioia perché era suo fratello che non vedeva da 20 anni!». Credo che la Bibbia ci aiuti a riconoscere l’altro, il migrante, sempre come un fratello, una persona simile a me. Grazie, caro Goffredo, perché anche il tuo lavoro – ne sono convinto – serve proprio a questo.
*Gianni Carozza è nato ad Atessa (Chieti) il 16 luglio 1977. Nel 1991 è entrato nel Seminario Arcivescovile di Chieti e ha conseguito la maturità classica. Alunno dell’Almo Collegio Capranica di Roma dal 1996 al 2003, ha frequentato gli studi filosofici e teologici presso la Pontificia Università Gregoriana. Ordinato sacerdote per la diocesi di Chieti-Vasto il 13 luglio 2002, nel 2005 ha conseguito la Licenza in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico ed è attualmente dottorando in Teologia Biblica presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. È docente di Lingua greca e di Esegesi biblica presso l’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano di Chieti e presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Pescara. Dal giugno del 2005 è Vicerettore presso il Pontificio Seminario Regionale “San Pio X” di Chieti. Ha scritto numerosi articoli di carattere esegetico.
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