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(ASI) Imperativo di chi fa informazione è lo “stare sulla notizia”, termine gergale che indica accurata diligenza e tempestività nel consultare la fonte, verificare i fatti e pubblicare i pezzi. La tragedia della nave da crociera Concordia, avvenuta nel mar Tirreno, ci suggerisce tuttavia un atteggiamento anche di tipo diverso. Oltre a “stare sulla notizia”, come si stanno precipitando a fare tutti gli organi d’informazione in queste ore, è nostra intenzione “sfruttare la notizia”.

Ravvisata qualche similitudine tra questo ed un altro incidente che quasi ventuno anni fa avvenne nelle nostre acque (sempre nel mar Tirreno ed a ridosso di una costa, a sole poche decine di chilometri più a nord), proviamo a dipanare la coltre di silenzio che i media italiani hanno calato da anni su quell’atroce mistero che risponde al nome di “tragedia del Moby Prince”. Partiamo dunque da un episodio di cronaca per promuovere l’esercizio della memoria storica, praticato poco e, spesso, in modo partigiano.

Era la sera del 10 aprile 1991, il Moby Prince non era una nave da crociera ma un traghetto, proveniva da Olbia e ormeggiava a qualche chilometro dal porto di Livorno. Il suo tragitto si arenò per sempre a causa di una collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Il carico di petrolio contenuto da questa seconda imbarcazione fu la miccia di un’esplosione devastante: a parte un unico superstite (un giovane mozzo), tutti i passeggeri del traghetto (140 persone) morirono carbonizzati. Come non bastasse il profondo dolore per la perdita di tante vite umane, la dinamica dell’incidente non risparmiò la salute del mar Tirreno, giacché la dispersione in acqua di enorme quantità di materiale combustibile e le fiamme furono motivo di un disastro ambientale. A fronte di una tragedia di simili proporzioni, ciò che ha lasciato comprensibilmente interdetta l’opinione pubblica e sentitamente delusi i familiari delle vittime, è l’ambiguo percorso giudiziario che avrebbe dovuto assolvere la funzione di indagine su questo incidente navale. Apportatori di perplessità furono dapprima i tempi record con cui la prima commissione istituita dalla Capitaneria di porto di Livorno chiuse il caso: in appena undici giorni, senza avvalersi di approfondite indagini, si sentenziò che la causa dell’incidente fosse da ricondurre all’errore umano. La fretta che animò l’aula giudiziaria, tuttavia, non convinse affatto, data la serie di strani ed inquietanti punti interrogativi sorti sin da subito intorno a quel relitto carbonizzato. Anzitutto, dalle perizie sui cadaveri si evinse che il ritardo nei soccorsi fosse elemento decisivo per il bilancio finale del disastro. In un primo momento, infatti, tutti i mezzi di soccorso si diressero solo verso l’Agip Abruzzo, consentendone il salvataggio dell’intero equipaggio. Come spiegare l’indifferenza verso la Moby Prince, nave carica di passeggeri? Al fatto che, incomprensibilmente, l’SOS inviato via radio dal comando della nave giunse alla Capitaneria di porto in modo debolissimo e disturbato, per motivi ancora mai accertati. Inoltre, dalla registrazione radio della comunicazione con la Capitaneria, emerse un’eloquente affermazione del comandante della Agip Abruzzo, però mai approfondita dalla magistratura nel corso delle inchieste: “…sembra una bettolina quella che ci è venuta addosso…” . Strano a dirsi che la Moby Prince, una nave di 6187 tonnellate, lunga 130 metri e larga 20 possa essere scambiata da un esperto uomo di mare per una bettolina, ossia per una piccola imbarcazione. A ragion veduta, quindi, si può formulare l’ipotesi per cui l’Agip Abruzzo abbia avuto il suo devastante impatto, almeno in un primo momento, con un mezzo diverso dalla Moby Prince, molto più piccolo di quest’ultima e sfuggito misteriosamente ai radar delle due navi ufficialmente coinvolte e della Capitaneria stessa.

I soccorsi ritardarono al punto che i primi a giungere in aiuto della Moby Prince furono due ormeggiatori di una piccola nave da pesca, i quali riuscirono a mettere in salvo l’unico supersite, ossia il giovane mozzo, che urlò loro che c’erano ancora molte persone vive all’interno della nave da mettere in salvo. I due ormeggiatori avvertirono la Capitaneria, eppure neanche questo esplicito sollecito sortì alcuna mobilitazione da parte dei soccorsi. Addirittura, una motovedetta della Capitaneria arrivata sul posto “indugiò” clamorosamente restando immobile di fianco alla Moby Prince. Inoltre, quando il mozzo in condizioni disperate finalmente venne caricato su questa imbarcazione al fine di farlo portare in ospedale, la stessa ritardò inspiegabilmente per oltre mezz’ora, provocando un grave deterioramento delle sue condizioni fisiche, prima di ripartire alla volta del porto.

Questi oscuri elementi si aggirarono per anni dentro il ricordo di quella tragedia; non provano nulla, è vero, eppure minano le fondamenta di una verità giudiziaria che non convinceva nessuno. Bisognerà attendere qualche anno prima che, grazie ad un’inchiesta di Panorama, trovino uno spazio nel quale incasellarsi affinché un mosaico alternativo all’astratto quadro proposto dai magistrati in un primo momento potesse definirsi. La bettolina evocata dal comandante della Moby Prince potrebbe corrispondere, infatti, ad una delle imbarcazioni della marina militare americana presenti nei pressi del luogo dell’incidente nel momento della collisione. La loro presenza, del resto, è documentata da questa sopraggiunta inchiesta del periodico di Mondadori. Questo nuovo spunto fece sì che nel 2006 venissero riaperte le indagini, chiuse in primo momento nel 1997 con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Le nuove indagini dischiusero un vaso di pandora allarmante: diverse navi militari americane più una francese quella notte, poco dopo le 22, stavano trasportando ingenti quantità di materiale bellico, compreso esplosivo, proveniente dalla base militare americana di Camp Darby, in Toscana. Un trasporto eccezionale e di estrema pericolosità, un’operazione segreta che non risulta autorizzata dalla prefettura di Livorno. Ergo, assolutamente illegale. Il Dipartimento di Stato americano ha sempre negato la presenza di navi militari, ammettendo invece vi fossero sul posto cinque navi mercantili battenti bandiera a stelle e strisce. Queste le dichiarazioni ufficiali, utili forse a preservare la ragion di Stato americana, che però non servono a chiarire una serie di elementi che qui vogliamo riportare. Primo; una testimone, Susanna Bonomi, afferma di aver visto, in quei momenti concomitanti con la collisione, attraccare al porto di Livorno la nave Octobar II, peschereccio statunitense che qualche anno dopo comparirà in un’inchiesta proprio per traffico d’armi (e scorie nucleari) con la Somalia, quella alla quale lavorava la giornalista Ilaria Alpi prima di essere uccisa da mani rimaste ignote. Secondo; la sospetta contraffazione dell’unico filmato amatoriale girato da bordo e recuperato nel relitto della Moby Prince. Terzo; le testimonianze rese da più persone che convergono circa l’avvistamento di un elicottero militare che ha volato a luci spente sopra il luogo dell’incidente per almeno una decina di minuti. Quarto; la ritrosia ingiustificata delle autorità militari americane a consegnare alla magistratura italiana le foto satellitari rivelate quella notte. Quinto; le inchieste che dimostrerebbero come i soccorsi siano stati volutamente ritardati da parte della Capitaneria di porto per consentire alle navi americane di sparire dalla scena. Sesto; il fatto che il relitto del Moby Prince, posto sotto sequestro nel porto di Livorno, nel ’98 quasi si inabissò senza un motivo apparente, salvo poi essere recuperato, stranamente dissequestrato e avviato allo smaltimento da manovalanze incerte (c’è chi sostiene, come lo scrittore Saviano, si tratti della Camorra), sebbene fosse il più importante reperto a disposizione degli inquirenti.

Elementi cui se ne aggiunge di diritto un altro, nondimeno sospetto: ad avvalorare la tesi giudiziaria dell’errore umano la poca visibilità dovuta ad una folta nebbia. Questa lettura è stata ufficialmente accettata dalla magistratura, ma a suo discapito vi sono le dichiarazioni rese dal capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile, a capo di una motovedetta dei soccorritori uscita dal porto di Livorno intorno alle 22:35: “In quel momento c’era bellissimo tempo, il mare calmissimo e una visibilità meravigliosa”. Semmai - aggiungiamo noi - l’unica nebbia che avvolge la tragedia del Moby Prince l’ha calata dall’alto qualche prono servitore delle ragion di Stato altrui. Speriamo che lo spunto concessoci, nostro malgrado, dall’incidente occorso alla nave da crociera Concordia (e che ci ha ispirato quest’insolito salto nel passato) sia foriero di riflessioni sull’efficienza e sull’autonomia del terzo potere dello Stato, che qualche ingerenza straniera, nella nostra storia in più occasioni, ha forse usurpato.

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