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L'anniversario del Volo su Vienna, qualche decennio dopo

(ASI) Ottima iniziativa quella dell'Associazione di Promozione sociale "Casa Pound", che mira a ricordare uno dei più grandi eventi della Prima Guerra Mondiale. Ecco il loro comunicato commemorativo: “La mattina del 9 agosto, alle ore 05:50, dal campo di aviazione di San Pelagio (Due Carrare - Padova) partirono undici apparecchi monoplano SVA .

 Dieci erano monoposto, pilotati da Antonio Locatelli, Girolamo Allegri, detto Gino Allegri, Censi, Aldo Finzi, Massone, Granzarolo, Sarti, Francesco Ferrarin, Masprone e Contratti; l'ultimo era un biposto pilotato dal Capitano Natale Palli. Il Maggiore Gabriele d'Annunzio, comandante della Squadra Aerea S. Marco, era nell'abitacolo anteriore.

Nove compirono l'impresa, giungendo su Vienna alle 9:20 e lanciando 50.000 copie di un manifestino in italiano preparato da d'Annunzio dal testo piuttosto prolisso. Si decise quindi di lanciare anche anche 350 000 copie di un secondo e più pratico, manifestino tradotto in tedesco. Il ritorno avvenne dopo poco più di 7 ore e mille chilometri di volo, sempre allo stesso aeroporto di partenza.

CASA POUND ITALIA PADOVA vuole ricordare MEDIATICAMENTE forse la più eroica impresa dannunziana mai compiuta con estrema arditezza dati i mezzi di allora e il rischio ineluttabile che esso comportava. D'Annunzio dimostrò ancora una volta che OSARE L'INOSABILE era il presupposto essenziale, assieme a valorosi aviatori che sapevano di rischiare ma non pensarono mai per un attimo di tirarsi indietro. Noi vogliamo elogiare anche a distanza di molti anni questi cavalieri del cielo che seppero coniugare coraggio e spregiudicatezza”.

E all'epoca, come commentavano l'avvenuto? Leggiamo assieme un resoconto del 18 agosto 1918, redatto da un giornalista de “L'Illustrazione Italiana”. Scopriamo assieme quali avventure d'Annunzio ha dovuto vivere, dopo l'immenso volo...

Quattro paginette dal taccuino di bordo del Comandante Gabriele d'Annunzio

9 Agosto

Il ritorno della pattuglia volante della “Serenissima” dal cielo di Vienna era atteso per mezzogiorno, calcolando sei ore per un percorso di mille km. Avvicinandosi quell'ora, le ansie crescevano, tanto più che da un pezzo si vedevano montare all'orizzonte vapori folti e grandi nuove bianche. La nostra emozione era grande, quantitativamente grande, come se il cuore si fosse ingigantito nel petto: non era un evento ordinario, quello: e, popolo ossequiente ai grandi significati, non potevamo mantenerci in nessun modo tranquilli. Quell'evento e quell'attesa trasfigurava la luce, il tempo, la memoria degli uomini che avevano da ritornare. Solo Gabriellino d'Annunzio, ufficiale aviatore di quel campo, aspettava con sicurezza che il padre riscendesse da tanto cielo; né più né meno si trattasse di scendere da una loggia in un giardino. Per mitigare la pena, vedevamo di distrarci. Sotto la tettoia, gli altri SVA della squadriglia stavano tutti agghindati, con le tozze ali tricolori, i timoni stellati, il leone di S. Marco, col “pax tibi” ben disegnato e ben dipinto sul fianco delle fusoliere. Pensavo: hanno fatto bene a consentire che partisse sopra una barchetta così leggere, per una mèta così distante, quel che di meglio avevamo fra noi, Gabriele d'Annunzio? Per un qualunque ignorante che l'Austria può mandarci a fracassare qualche bella cupola di chiesa, noi osiamo mandare un così grande scrittore, quasi per un gesto di cavalleresca spavalderia? Merita forse l'Austria di essere convinta e ammonita, con tanto rischio dei nostri migliori? Mandarcelo o no: ma chi avrebbe potuto tenerlo dall'andare? Chi avrebbe voluto offendere la sicurezza ch'egli mostrava di riuscire? In verità nessuno avrebbe potuto dire a questo soldato, a questo maggiore di  cavalleria: “fatti indietro, poeta” tante e continue furono le prove di buona pratica guerresca ch'egli ha dato di sé dal principio della guerra. I vecchi militari intelligenti si guardano bene dal disconoscere la sua opera di soldato. Anche Diaz, ho sentito che ne parla con un premuroso rispetto. “Eccoli, eccoli”, gridarono molte voci sul campo: e dal gran tuffo che il cuore ci fece in petto, ci accorgemmo quant'era stata forte fino a quel momento la nostra passione.

Un primo apparecchio giunge rapidissimo sul campo. Chi sarà? Chi mancherà? Quasi per burlare la nostra inquietudine, per rimproverarci quel po' di fede che ci è mancata, lo SVA prima di scendere a terra esegue evoluzioni di crudele raffinato indugio sulla nostra folla meschina: dopo sei ore e mezza di volo ci volevan proprio di questi scherzi! Finalmente lo vediamo toccar terra sollevando sul verde campo dove battono le ruote, nuvolette di terra rossa. E' il tenente Censi. Le prime parole che dice sono: “A 700 metri su Vienna”. Altre grida sul campo, altri apparecchi in formazione serrata all'orizzonte, che rapidamente ingrandiscono: uno, due, quattro e infine sei. Dunque manca un apparecchio? Ma a Vienna ci sono arrivati.

Secondo a toccar terra è il biposto che porta il capitano Palli e il Comandante d'Annunzio. Tutti si precipitano loro incontro gridando evviva, ridendo, piangendo. D'Annunzio si leva il casco di volatore e grida: Gloria alla “Serenissima”. Non sarebbe possibile non associarsi al suo grido. Egli non ha in viso segno di stanchezza: la gran gioia di quello che è riuscito a fare e di quello che ha visto gl'illumina la faccia. Si rivolge verso il suo pilota Palli e lo bacia, poi esclama: “Bisogna glorificare quest'uomo, per lo straordinario senso d'orientazione che ha”. Allora ho capito quanto è sincero in d'Annunzio quell'antico bisogno di “laudare”, con quanto generoso entusiasmo egli suole intendere gli uomini e le opere, il valore civile che annette alla proclamazione dei meriti. Del resto, chi avrebbe cuore di obbiettare qualcosa? Questi due uomini ancora chiusi nella stessa gabbia di legno leggero vengono da Vienna. Palli scende a terra, si leva la cuffia e il pellicciotto, appare un ragazzo di piccola statura, di miti occhi azzurri e capelli fulvo chiari. D'Annunzio senza discendere da quel piccolo pulpito che lo ha portato fin sulla cattedrale viennese di Santo Stefano domanda: “Dov'è Fra Ginepro”? Piace in un momento come questo l'allegria del Comandante. Fino a questo momento vivevamo nella leggenda, vivevamo in versi e in rima, l'emozione ci mungeva troppa vita del cuore. Il cerchio del grande stupore è rotto, d'Annunzio vuol rivedere e baciare i suoi compagni; dopo il ditirambo vien la prosa intima e scherzosa. Fra Ginepro non è altri che il tenente Allegri di Mestre, un sottotenente di artiglieria  con grande e riccia barba bionda, che ha vissuto lungamente a Vienna: pilotava uno dei due SVA che proteggevano quello disarmato dei capi – pattuglia. L'altro era pilotato dal tenente Locatelli.

Le altre 5 macchine oramai erano discese a terra e attorno ad ogni nuovo arrivato era corsa subito gente, eran gridi, battimani ed abbracci. Ma come si fa a scostarsi dal velivolo di d'Annunzio?

Il poeta racconta come gli sia apparsa a Vienna tra le colline e la sponda del Danubio: ed egli sa – quello che gli altri giovanotti non saprebbero fare – sa metterci con due parole sotto gli occhi le città, le ville, le strade. Per virtù della sua parola un po' di quello spettacolo e di quella gioia che il poeta ha provato giungendo su Vienna l'abbiamo potuta provare anche noi che ora stavamo a sentirlo. Raccontata da altri, non ci avrebbe fatto lo stesso effetto. Certo io non commetterò adesso l'imprudenza di rabberciare a mio modo il racconto di d'Annunzio.

Ecco d'Annunzio fra noi, disceso a terra con un gran maglione e grandi calzeroni di lana. Come fa presto a corrompersi 'aria anche delle feste più belle! Non sono passati forse venti minuti dallo storico atterramento dei sette apparecchi, che già cominciano i discorsi accademici, le ambascerie dei vari corpi, i mirallegro, le fotografie in gruppo, il solito gergo delle inaugurazioni e delle bicchierate degenera in festa di famiglia. Io non posso dimenticare un minuto che questi otto uomini tre ore fa erano su Vienna, e non capisco come la gente osi mischiarsi fra loro con tanta impudenza.

D'Annunzio veramente non ha chiesto che di rivedere uno a uno i sette compagni per baciarli e accarezzarli. Ora c'era un'infinità d'altra gente estranea che si faceva sotto per la voglia d'avere un uguale trattamento. Per conto mio, stingendo la mano a d'Annunzio, non trovai di meglio che queste due povere parole: “buon giorno”. E quando acconsentirono a lasciarlo progredire verso l'hangar ombroso, preceduto dalla turba dei fotografi che gli facevano scattare gli obiettivi sotto il viso, col passo legato in quei grandi calzeroni di lana, in mezzo a tanta testa quella sua marcia mi parve una stazione della Via Crucis. Meglio, pareva un aquilotto con ali mozze, trastullo dei terrazzani. Era chiaro che s'avvicinava per il comandante d'Annunzio il momento della relazione, degli specchietti, delle firme, il momento delle scartoffie. Del resto gli va fatto il merito di essere un buon comandante anche per l'umiltà con la quale si sobbarca queste torture.

Non sarà vero quello che i comunicati austriaci ci vorrebbero far credere: essere i viennesi “indignati” per il lancio dei volantini nella città. Ma, d'altronde, chi va a cercare la verità nei loro comunicati? Non è possibile che i viennesi si siano potuti difendere da un senso di viva ammirazione e di trepido stupore vedendo volare così basse le ali tricolori e dopo un lungo indugio partirsene senza avere fatto altro danno. Altro che indignazione! C'è da scommettere che i dormiglioni si saranno morsi le dita pel dispetto d'aver perduto uno spettacolo come quello, e avranno sgridato le serve che non li avevano svegliati a tempo. Non è chi non veda la stretta parentela espressiva tra gli “indignati” del comunicato e l'ineffabile grido Ferravila “indelicato!”. E' che solo il nome di Gabriele d'Annunzio fa schiumare le labbra della casta militare austro – ungarica. La fantasia organizzatrice di questo imbrattacarte comincia veramente a preoccupare.

La sera del volo Gabriellino m'ha raccontato d'aver incontrato un vecchio avvocato, con busta di pelle, che battendogli una mano sulla spalla gli aveva detto, benignamente: “Che birichino, papà”.

Antonio Baldini, da l'Illustrazione Italiana del 18 agosto 1918, numero speciale.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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