(ASI) La situazione che stiamo vivendo oggi, con nuovi focolai e conflitti che si accendono in tutto il mondo, mi porta a una riflessione inevitabile: la guerra non è una scoperta moderna, ma è un’ombra che accompagna l’umanità da sempre.
Cambiano le armi, i confini, le motivazioni — ma il meccanismo resta lo stesso. Fin dall’inizio dei tempi, l’uomo ha combattuto per possedere, difendere, conquistare. Per un pezzo di terra, per un’idea, per il potere, per paura o per fede.
Già nell’antichità, gli eserciti marciavano per espandere territori e potere: dagli imperi mesopotamici e dalle campagne di Alessandro Magno, alla Roma che costruì la sua grandezza anche sulle rovine dei popoli conquistati. Nel Medioevo furono le crociate a tingere di sangue l’Europa e l’Oriente, in nome della fede. Poi le guerre di successione, le conquiste coloniali, i conflitti per le risorse e per le ideologie.
Il Novecento, con le sue due guerre mondiali, ha mostrato quanto profonda possa essere la ferita del potere e dell’odio. Eppure, anche dopo tanto dolore, l’uomo non ha smesso di combattere.
La storia insegna, ma l’uomo non impara.
Se guardiamo indietro nella storia, è difficile trovare un’epoca senza guerra. È come se la conquista fosse inscritta nel nostro DNA, come se il bisogno di prevalere facesse parte della nostra natura più profonda.
Forse la verità è che la guerra non nasce solo nei territori, ma dentro l’uomo stesso: nel bisogno di dominare, di affermarsi, di sentirsi più forte dell’altro. Ma insieme a questa tendenza distruttiva, l’umanità porta in sé anche la capacità opposta: quella di creare, di amare, di cercare pace.
La nostra storia è fatta di entrambe le forze — distruzione e rinascita, ferita e cura.
Riconoscere questa dualità è forse il primo passo per comprendere davvero la pace: non come un traguardo definitivo, ma come una conquista interiore, fragile e quotidiana.
E ogni volta che l’uomo dimentica questa verità, la storia si ripete.
Elisa Fossati
*Immagine generata da Microsoft Copilot



