Elezioni USA. Le riflessioni di Lorenzo Valloreja: American First. La visione di Trump e le implicazioni per l'Italia

(ASI)  Le riflessioni sviluppate dal saggista ed analista politico Lorenzo Valloreja circa la rielezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti.

 Alla fine, Trump ha nuovamente trionfato. Come ho documentato nei miei articoli, io, a differenza di molti professionisti strapagati dell'informazione e della politica, avevo previsto questo esito già all'epoca dei fatti di Capitol Hill. Quel giorno, per chi aveva occhi per vedere e orecchie per ascoltare, emergevano chiaramente le crepe del sistema americano — crepe già visibili nelle elezioni del 2000, quando fu necessario l'intervento della Corte Suprema per risolvere il contenzioso tra George W. Bush e Al Gore. Si evidenziava anche come una buona parte degli americani non creda più nell'illusione del sogno americano. Disincanto e rabbia sono così forti che molti sono disposti persino a rischiare la vita, come è accaduto alla povera Ashli Babbitt.

Non sono mancate condanne, giunte da mezzo mondo, per l'assalto al "Tempio della Democrazia". Tuttavia, nessuno ha colto un'antica lezione, richiamata da Luigi Magni nel film "In Nome del Papa Re", dove Nino Manfredi, nei panni di Monsignor Colombo, ammonisce i giudici dei carbonari: "Stiamo attenti, eccellentissimi padri, che quando un esercito è in borghese, è un esercito di popolo. E col popolo, ci si sbatte sempre il grugno!" Ma, d'altronde, è difficile trasmettere una saggezza e una cultura politica che affonda le radici in oltre 2000 anni di storia a chi costruisce campidogli fittizi, espone fasci littori e aquile, senza capire davvero il senso della cultura classica che tenta di emulare.

Eppure, c'è chi continua a definire gli Stati Uniti come la "più grande democrazia al mondo," ma forse, a voler essere onesti, il termine "grande" si riferisce solo alla demografia. Che tipo di democrazia è quella in cui:

  • Non esiste il silenzio elettorale;
  • Non esiste la par condicio;
  • Non ci sono veri partiti, ma strutture fluide;
  • Gli elettori:
    • Devono iscriversi nelle liste elettorali e dichiarare la propria appartenenza a uno dei due partiti;
    • Possono votare in anticipo o per corrispondenza;
    • Non eleggono direttamente il Presidente, che, per inciso, riunisce in sé i poteri esecutivo, legislativo, militare, diplomatico e giudiziario.

Che tipo di democrazia è mai questa?

È una democrazia di stampo illuministico, quasi coloniale, ma non certo moderna. Non stupisce, quindi, l'augurio della portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, affinché gli americani superino "la crisi della democrazia e la divisione della società." Con il passare del tempo, il contrasto tra due visioni del mondo — una da plebiscito risorgimentale e una che guarda al III millennio — diventerà sempre più evidente.

Trump, quindi, non è il frutto avvelenato di un sistema malato, né un incidente per la democrazia americana. Potrebbe, invece, essere il rimedio per riportare la società statunitense, come direbbe Battiato, "a quote più normali".

Una società dove non sia più permesso abbattere le statue di esploratori come Cristoforo Colombo o vandalizzare quelle di Thomas Jefferson e George Washington, e dove non si osi nemmeno proporre l'aborto al nono mese. Un mondo in cui la guerra sia davvero un'extrema ratio e non la normalità, e dove la transizione di genere sia una scelta riservata agli adulti, non incoraggiata tra i minori. Insomma, un ritorno a quel modello che ha consentito all'uomo di progredire nei secoli, e non di trovarsi sull'orlo del disastro come oggi.

Per Trump, questo obiettivo si riassume nello slogan "America First", ovvero nell'idea che gli Stati Uniti debbano privilegiare gli interessi nazionali rispetto a quelli internazionali, riducendo l'impegno nelle alleanze estere e concentrandosi su temi interni come l'occupazione, la produzione e la sicurezza.

Un'opportunità per tutti i veri sovranisti, non quelli della domenica, dove per sovranismo si intende l'idea che gli stati nazionali dovrebbero avere il pieno controllo su leggi, politiche e decisioni senza ingerenze esterne, Stati Uniti compresi.

Gli USA, infatti, stanchi e impoveriti rispetto al passato, potrebbero finire per lasciarci maggiore autonomia e, perché no, potrebbero persino ritirarsi dalla nostra penisola. Dopo ottant'anni sarebbe anche ora, considerando che potrebbero accontentarsi di un'alleanza bilaterale se solo ci assumessimo l'onere economico e materiale di mantenere un esercito che copra loro le spalle nel Mediterraneo, anziché volerci sciogliere in un presunto esercito europeo.

Il tycoon odia l'Unione Europea e la NATO quasi quanto la Cina e ha capito che, per contenere quest'ultima, deve trovare un equilibrio con la Federazione Russa. Noi potremmo diventare il Paese cerniera tra queste due potenze, ma la nostra classe politica, invece di lavorare per il "Make Italia Great Again," sembra impegnata a smantellare quel poco di sovranità che ci è rimasta. Infatti, questi soggetti, sono come le pulci che, ormai assuefatte a un ambiente limitato, non riescono più a saltare fuori dal barattolo.

Anche l'unico partito apertamente antieuropeista che avevamo, ItalExit di Gianluigi Paragone, ha chiuso bottega proprio alle soglie di questo momento storico. Esiste ancora una minoranza di euroscettici e veri Patrioti, ma purtroppo non è sufficiente, e non è la sola élite a poter riscrivere la storia di una Nazione.

Se gli Stati Uniti affrontano una crisi democratica, noi, di contro, viviamo una crisi di identità nazionale, e la cura Trump potrebbe essere utile anche all'Italia per favorire, in maniera esogena, il risveglio dei più restii.

Dunque, bentornato Trump e buona fortuna mondo!

Lorenzo Valloreja

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