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Idee a confronto. Giustizia ed Elezioni il pensiero del Magistrato Giuliano Mignini

(ASI) Con l’imminente scadenza elettorale, riprende, come al solito, con immutato “zelo”, quell’operazione che si chiama “Riforma della Giustizia”, ma che, in realtà, mira alla vanificazione di quello che è l’elemento essenziale del processo, specialmente in ambito penale ma non solo, l’accertamento della verità dei fatti controversi e la conseguente pronuncia giudiziale che risolve autoritativamente una controversia, attribuendo il “diritto” alla parte vincente e stabilendo la prevista sanzione alla parte che viene riconosciuta soccombente.

Già, non c’è pareggio, di regola, in questo conflitto che il processo e le sue regole debbono gestire.
Sembrerebbero concetti ovvi, ma, per qualcuno, non è così.
Per qualcuno, è lo stesso processo una “pena”, da rendere il più breve possibile anche con la riduzione dei termini prescrizionali e con l’introduzione di istituti che rendano, di fatto, spesso, impossibile la decisione.
Questa è l’espressione usata dall’ex presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi, un uomo che, nonostante importanti incarichi istituzionali ricoperti, non ha mai nascosto la sua insofferenza verso l’istituzione giudiziaria e che l’ha confermata in un recentissimo intervento di qualche giorno fa, aggiungendo la solita, inutile, litania di “proposte”, come la consueta riforma auspicata dagli avvocati, la “separazione delle carriere”, da perseguire anche attraverso un’innovazione lessicale che non ha neppure un accenno nel codice di procedura penale, cioè “avvocati dell’accusa”, per indicare i soggetti che accusano, comunque, sembrerebbe, a prescindere dal merito e “avvocati della difesa” che, questi sì, comunque difendono e debbono difendere il cliente. Sempre in un’ottica di forte avversione verso l’istituzione giudiziaria e, in particolare, verso la figura del “Pubblico Ministero”, il cavaliere ripropone vecchi temi già bocciati dalla Corte Costituzionale, come quello per cui, mentre il difensore può appellare le sentenze di condanna, la contrapposta parte pubblica, cioè, appunto, il “Pubblico Ministero” dovrebbe vedersi negato il diritto di impugnare le sentenze di assoluzione, con buona pace del principio della parità delle parti che contraddistingue il giudizio.
Vi sono addirittura progetti di riforma ancora più ostili verso la magistratura, come quelli che provengono da una nuovissima formazione di “centro”, sempre d’intonazione “liberale”, che estende l’ambito “punitivo” anche con la responsabilità civile diretta verso il magistrato, inserendo soggetti privati, rispettabilissimi professionisti, per carità, ma che, nel processo, sono prestatori d’opera professionale in favore del rispettivo cliente, nel governo di organi pubblici di rilievo costituzionale ed altre proposte consimili o, addirittura, limitando ulteriormente le misure cautelari.
E tutto questo, nonostante il fallimentare esito dei recentissimi referendum sulla giustizia, nonostante la pronuncia di incostituzionalità del principio dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, nonostante siano già in vigore riforme ma con caratteristiche più realistiche e meno “afflittive”, per i magistrati e nonostante non siano questi i problemi impellenti della giustizia, in un paese che è, notoriamente, la patria di tutte le varie “mafie” che esistono al mondo.
L’unico tipo di “Riforma della Giustizia” che, ormai, le più importanti forze politiche, con l’eccezione dei “Cinque Stelle” e di qualche formazione minore, perseguono, è una lotta senza quartiere non contro queste aggregazioni criminali e contro la delinquenza che rende insicure le nostre città, non per perseguire efficacemente, nel rigoroso rispetto delle garanzie, certo, il fine ultimo dell’affermazione della Giustizia e della Legalità, ma contro un’intera istituzione, quella giudiziaria, che la Costituzione ha voluto unita, pur nella differenziazione tra “Magistratura giudicante” e “Magistratura requirente”.
Invece di individuare i sistemi per perseguire disciplinarmente e penalmente i magistrati che violano i loro doveri, che si rendono responsabili di strumentalizzazione dell’attività giudiziaria a fini politici, quelli che sono tolleranti verso i “colletti bianchi” e non esercitano la funzione giudiziaria con assoluta imparzialità, si colpisce “nel mucchio”: così si confessa che l’intenzione più profonda non è migliorare e rendere più efficiente la Giustizia, ma indebolirla, dividerla, renderne quantomeno difficoltoso, se non impossibile, il raggiungimento dei suoi fini istituzionali e lasciare la società in balia dell’illegalità e della sopraffazione, trasformare una situazione di conflitto tra il fatto e le norme che va punita, nella regola.
Si celebra e si ricorda, peraltro con malcelato fastidio ed imbarazzo, una figura di magistrato eroe e “martire”, come Paolo Borsellino, ma chi ricorda più le sue parole? E’ un uomo celebrato in certi settori, non tanto per quello che ha fatto, ma perché non era certamente una “toga rossa”, come se non vi fossero e non vi siano, nel panorama giudiziario italiano, magistrati con una formazione di “sinistra”, per così dire, altrettanto imparziali e fedeli ai loro doveri.
Certo, Paolo Borsellino era un fedelissimo servitore dello Stato e che non guardava in faccia a nessuno e che, per farlo, ha pagato con la vita, come lo ha fatto il suo grande collega ed amico, Giovanni Falcone, a Paolo tanto legato, pur nella legittima diversità delle loro origini culturali.
Quello che conta è che il magistrato non scenda a compromessi con la propria coscienza e che sia animato dal fine della Giustizia, da perseguire nel più rigoroso rispetto delle garanzie processuali. Le sue convinzioni di tipo “ideologico” o, direi meglio, “culturale”, non contano, purché il magistrato abbia, come punti di riferimento indefettibili, il fine della Giustizia e i mezzi delle Garanzie per raggiungerlo, oltre alla consapevolezza dell’assoluta apoliticità della giurisdizione. Tutto il resto è aria fritta.
Quando si esporrà il magistrato al rischio, anche infondato, di un’azione di responsabilità diretta da parte del protagonista processuale più dotato di mezzi economici per sostenerla, quando si trasformerà il “pubblico ministero” in un “avvocato dell’accusa” che dovrà accusare per principio o, peggio ancora, secondo le “direttive” del Ministro della Giustizia, quando si privatizzerà anche questa, secondo lo schema dell’”utile” e del “conveniente”, si avrà un magistrato che potrà assomigliare a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone? E cosa direbbero questi martiri, delle riforme in cantiere e del sogno, non più tanto celato, della classe politica, passata al servizio dei banchieri e dei “mercati”, di vendicarsi sui magistrati per le indagini svolte e che svolgono e, soprattutto, della stagione di “Mani pulite” ?
Qualcuno richiamerà le tesi sulla genesi e sulle finalità di questa vicenda, per capovolgere il rapporto e trasformare gli imputati di allora in vittime ed eroi e i magistrati in reprobi, asserviti ai servizi segreti di mezzo mondo. Se non vi fosse stata “materia” per processi penali, a causa delle accertate responsabilità dei responsabili, appunto, “Mani pulite” non vi sarebbe stata. Questa è la realtà.
Vogliamo una “giungla”, sia pure, con lessico “soft” ed ipocrita, o una società ordinata e con una giustizia imparziale, con tutti? Io li osservo certi, tanti politici, quando, nei dibattiti televisivi, qualcuno accenna alla stagione di “Mani pulite”. Perdono letteralmente qualunque forma di autocontrollo e si gettano con incredibile foga verbale contro quella vicenda, non contro le condotte che l’hanno provocata, se provate a livello processuale.
E hanno riflettuto questi politici che le indagini dei “pubblici ministeri” derivavano dall’introduzione del tanto osannato “codice Vassalli”, entrato in vigore tre anni prima di “Mani pulite”? Vassalli era un galantuomo all’antica, certo, ma che ha prodotto, forse senza volerlo, una situazione in cui sono i “pubblici ministeri” a gestire le indagini, non più il “giudice istruttore”, come al tempo del Codice “fascista”, con l’ulteriore, gravissima contrapposizione tra magistratura requirente e avvocatura, derivata da una visione totalmente astratta del ruolo del “pm”, che deve sì operare, nel giudizio, in una condizione di parità con la difesa, ma che, a differenza di questa, opera in un’ottica pubblica, di “imparzialità” e non è un libero professionista, ma un organo dello Stato, come lo è il giudice.
Riflettano i politici in merito a queste considerazioni e recuperino la dignità della loro funzione. Quanto ai cittadini, non pensino che la Giustizia sia un affare per loro estraneo. Non lo è affatto. Potrà giungere il momento in cui certe riforme appaiano totalmente irrazionali e lesive delle loro aspettative di giustizia.

Giuliano Mignini

 Perugia, 21 agosto 2022

 

 

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