(ASI) Le violenze avvenute in Sudan il 25 Ottobre hanno messo fine a uno degli ultimi tentativi di democratizzazione ancora in corso nel mondo arabo. Si può parlare di un vero e proprio colpo di stato contro il governo di transizione nato dopo la rivoluzione del 2019, che aveva rovesciato la dittatura di Omar al Bashir.
I militari golpisti hanno fatto irruzione nel Palazzo Presidenziale sciogliendo d’imperio il governo di “condivisione” composto da militari e civili, arrestando il primo ministro Abdalla Hamdok e la moglie, il ministro dell’Industria Ibrahim al Sheikh e il ministro dell’Informazione Hamza Baloul. Hanno sospeso diversi articoli della Costituzione, dichiarato lo stato d’emergenza, bloccato internet e chiuso l’aeroporto.
Si sono scontrati con la resistenza della popolazione sparando lacrimogeni e proiettili. Si contano numerosi feriti e almeno una decina di morti. A guidare l’azione dei militari c’è il generale Abdel Fattah al-Burhan, fino a pochi giorni fa capo del Consiglio Sovrano del Sudan. Nel suo primo discorso alla tv nazionale ha dichiarato: <<Abbiamo sciolto il governo per evitare una guerra civile. L’esercito non aveva altra scelta che mettere da parte i politici che incitavano la ribellione contro le forze armate.>> Secondo il nuovo capo di stato quindi non si tratta di un golpe ma di un “passaggio di consegne necessario”.
La tensione tra il generale Burhan e il premier Hamdok in realtà cresceva da mesi. Il fallito golpe dello scorso 21 Settembre ad opera dei seguaci dell’ex presidente Omar al-Bashir, secondo il premier Hamdok era stato “orchestrato al’interno e all’esterno delle forze armate”. <<Quanto sta accadendo – aveva detto Hamdok – è la manifestazione di una crisi nazionale e indica la necessità di una riforma delle nostre agenzie di sicurezza e delle istituzioni militari.>> Si era così aperta ancora di più la spaccatura tra i leader civili sostenitori di Hamdok e i gruppi di islamisti che chiedevano di <<cacciare il governo della fame>>. L’aumento del prezzo del pane, il protrarsi della crisi economica hanno scatenato proteste nella capitale e in altre città del Paese. In questo contesto, i negoziati tra civili e militari si sono quasi da subito arenati. I militari hanno preso il sopravvento guidati dal generale Mohamed Dagalo “Hemetti”, l’uomo che comanda le Rapid Support Forces sulla quale si regge il controllo di gran parte del territorio. Il generale Al Burhan spinto dalla forte sfiducia popolare e dalle pressioni del generale “Hemetti” ha annunciato quindi che “la rivoluzione” continuerà sotto un governo tecnico, confermando le elezioni del 2023.
Secondo Kenneth Roth, direttore esecutivo dell’ong Human Rights Watch “dietro il colpo di stato in Sudan vi è un grande interesse commerciale che l’esercito non vuole cedere ai civili. I profitti, in questo caso, hanno la precedenza sulla democrazia”. Il premier Abdalla Hamdok nel momento in cui ha attaccato apertamente l’attività economica dell’esercito è stato deposto. Nel Dicembre del 2020 aveva dichiarato: <<è impensabile che l’esercito e i servizi di sicurezza investano nei settori produttivi entrando in concorrenza con il settore privato>>. Secondo informazioni non ufficiali l’esercito sudanese parteciperebbe alle operazioni per l’estrazione dell’oro, alla produzione di caucciù e all’esportazione di carne, farina e sesamo. Le aziende militari non pagando le imposte sono agevolate rispetto al settore privato portando così una concorrenza sleale. Il generale Abdel Fattah al Burhan si era opposto all’idea di costringere l’esercito ad abbandonare i propri investimenti ma aveva accettato la possibilità che i militari pagassero alcune imposte. Oggi, essendo capo assoluto del Paese, le minacce agli interessi dell’esercito sono svanite. La reazione degli Stati Uniti è stata durissima. Hanno immediatamente sospeso il sostegno finanziario al Sudan condannando l’azione dei militari, mettendo “in pausa” l’intero pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari. Lo stato di salute di un’economia già in condizioni difficili a causa della pandemia è quindi messa a dura prova. Il paese soffre di 27 anni di sanzioni statunitensi, ha perso il petrolio del Sud Sudan, indipendente dal 2011, ed ha un debito estero di 70 miliardi di dollari. Il generale Mohamed Dagalo “Hemetti”, ora vicepresidente del Consiglio sovrano, ha dichiarato che il loro intento sarà solo ed esclusivamente “dare al Paese la possibilità di raggiungere un cambiamento politico e una democrazia reale.”<<Abbiamo sempre sostenuto la protesta del popolo. Il Paese aveva bisogno di un cambiamento e lo abbiamo realizzato con la rivoluzione>>. Ora il futuro è quindi tutto da tracciare. Dipenderà molto da quanto e come il governo prenderà in considerazione il destino degli oppositori e dei 44 milioni di abitanti ancora soggiogati dalla fame e dallo stato di guerra permanente.
Vaerio Doddo per Agenzia Stampa Italia