(ASI) Con la sentenza 7748 dell’8 aprile 2020, la terza sezione della Corte di Cassazione torna ad occuparsi nuovamente dei danni chiamati, con approssimazione, indiretti.
I congiunti di un ragazzo trasportato su di un motociclo, chiedono, senza successo, alla Corte territoriale di primo grado e alla Corte d’Appello, il ristoro, iure proprio, dei danni morali subiti in seguito alle lesioni riportate dal loro congiunto. I giudici di prime cure, però, non riconoscono le loro ragioni, sia perché ritengono che per essere risarciti sia necessario il totale sconvolgimento delle abitudini di vita, sia perché non ritengono fornita, da parte degli attori, la prova attiva e positiva, del danno lamentato. Gli sconfitti nei primi due gradi di giudizio non si danno per vinti e ricorrono in Cassazione che, rigettando alcuni motivi, accoglie il primo e principale, fondando la decisione su elementi già presenti nel patrimonio della Corte e ribaditi, in questa occasione, con puntuale chiarezza.
Per quanto riguarda il danno non patrimoniale o danno morale, che dir si voglia, gli Ermellini precisano che “In astratto, come è stato precisato da questa corte, "il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall'altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta" Cass. 11212/2019; Cass. 2788/2019; Cass. 17058/2017)”.
Secondo i giudici del Palazzaccio, non è sempre necessaria una prova nel senso classico del termine, poggiata su documenti o testimonianze, dato che è consentito valorizzare, nel nostro ordinamento, anche la prova presuntiva, basata su indizi che il giudicante può desumere dagli elementi presenti agli atti del processo o da circostanze che, di per sé, non siano suscettibili di prova positiva, come, ad esempio, il dolore per la morte di un coniuge.
Proprio per questo, nella motivazione della sentenza oggetto della nostra riflessione, troviamo che “La decisione della corte di merito, in realtà, è errata nella premessa: essa postula, invero, che il danno risarcibile ai congiunti per le lesioni patite dal parente, vittima primaria dell'illecito, sia solo quello consistente nel "totale sconvolgimento delle abitudini di vita", limitazione che non ha in realtà alcuna ragion d'essere. Dalle lesioni inferte a taluno possono derivare, in astratto, per i congiunti sia una sofferenza d'animo (danno morale) che non produce necessariamente uno sconvolgimento delle abitudini di vita, sia un danno biologico (una malattia), anche essa senza rilevanza alcuna sulle abitudini di vita”.
I primi due giudizi avevano male valutato la natura del danno e la funzione del ristoro richiesto anche perché “il danno dei congiunti è qui invocato iure proprio. Si parla spesso impropriamente di danno riflesso, ossia di un danno subito per una lesione inferta non a sè stessi, ma ad altri.
In realtà, il danno subito dai congiunti è diretto, non riflesso, ossia è la diretta conseguenza della lesione inferta al parente prossimo, la quale rileva dunque come fatto plurioffensivo, che ha vittime diverse, ma egualmente dirette. Ed anche impropriamente allora, se non per mera esigenza descrittiva, si parla di vittime secondarie.
Con la conseguenza che la lesione della persona di taluno può provocare nei congiunti sia una sofferenza d'animo sia una perdita vera e propria di salute, come una incidenza sulle abitudini di vita.
Non v'è motivo di ritenere questi pregiudizi soggetti ad una prova più rigorosa degli altri, e dunque insuscettibili di essere dimostrati per presunzioni.
E tra le presunzioni assume ovviamente rilievo il rapporto di stretta parentela (nella fattispecie, genitori e fratelli) tra la vittima in primis, per cosi dire, ed i suoi congiunti”.
Da qui l’importanza della tecnica della presunzione per verificare l’esistenza del danno e la sua prova, tenuto conto che “Il rapporto di stretta parentela esistente fa presumere, secondo un criterio di normalità sociale (ossia ciò che solitamente accade) che genitori e fratelli soffrano per le gravissime permanenti lesioni riportate dal congiunto prossimo. Né v'è bisogno, come postula la sentenza impugnata, che queste sofferenze si traducano in uno "sconvolgimento delle abitudini di vita", in quanto si tratta di conseguenze estranee al danno morale, che è piuttosto la soggettiva perturbazione dello stato d'animo, il patema, la sofferenza interiore della vittima, a prescindere dalla circostanza che influisca o meno sulle abitudini di vita”.
Ciò non toglie, chiaramente, che, in una corretta ed esaustiva attività difensiva, si possa migliorare l’impianto probatorio, fornendo al giudicante, quante più prove a corredo della domanda.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia
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