(ASI)  Un diritto esclude l’altro. La legge sul professionismo sportivo in Italia riconosce solo pochi atleti come tali; il resto invece, soprattutto le atlete - una categoria contestualmente considerata in toto - viene identificato con il dilettantismo.

 

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” scriveva il filosofo Ludwig Wittgenstein in una delle sue celebri proposizioni. L’intimo legame, che vivifica il rapporto fra linguaggio e società è che si alimenta di continuo negli anni, tuttavia si spezza in un nodo centrale che raccoglie mutamenti sociali, bisogni che si rinnovano e nuove interpretazioni della realtà. Difficilmente le novelle visioni vengono anteposte a quelle tradizionali. Per paura forse. Così succede probabilmente con la legge 91 del 23 maggio 1981 rimasta ad oggi immutata nella propria testuale affermazione e che recita: “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzioni dell’attività dilettantistica da quella professionistica". In aggiunta al seguente precetto, bisogna inoltre ricordare che in Italia soltanto sei discipline sono riconosciute professionistiche come il calcio, golf, basket (anche se solo nella categoria A1), ciclismo, motociclismo e la Boxe. Tutti maschili, certo, ma con la conventio ad excludendum che si applica su 56 sport dove moltissimi atleti sono considerati dilettanti. Tuttavia in questo quadro ad essere ancor di più svantaggiate sono proprio le donne che non rientrato in nessuno sport professionalizzato in virtù proprio della legge 91 che non considera, inoltre, con le consuete direttive di genere, il termine “atlete”. Pertanto a queste vengono negati importanti diritti in termini di rapporti con le società, la previdenza sociale, l’assistenza sanitaria e con il trattamento pensionistico.

Il problema legato al mancato professionismo consisterebbe nella proliferazione di pochi introiti nello sport femminile, come se i risultati e le prestazioni sia a livello individuale che collettivo non bastassero da soli. Federica Pellegrini ad esempio, nonostante un ricco medagliere è considerata una dilettante, così come Simona Quadarella (vista recentemente agli europei di Glasgow) o Sofia Goggia e Arianna Fontana che hanno conquistato importanti medaglie d’oro di nella discesa libera alle Olimpiadi invernali in Corea del Sud. Molte di queste atlete per poter usufruire di alcuni benefici ad esempio il periodo di congedo per la gravidanza, non potendo contare sulle federazioni, entrano a far parte dei corpi sportivi delle forze dell’ordine. Contrariamente altre atlete come le calciatrici invece non hanno la medesima possibilità e così sono in balia delle istituzioni.

“Il concerto nello stadio è di sinistra. I prezzi sono un po’ di destra”. Così cantava Giorgio Gaber in uno scorcio di contraddizione all’italiana. Parallelismo perfetto per rappresentare il paradosso del calcio femminile nel paese. Di anno in anno crescono sempre di più infatti le sezioni omonime delle squadre maschili in serie A - lo scorso anno la Juventus, quest’anno la Roma Woman Soccer - ma allo stesso tempo si assiste ad una contrapposizione fra istituzioni. Questo è il caso della Corte d’Appello federale che a fine luglio ha annullato la delibera di Fabbricini in merito al passaggio del calcio femminile dalla Lnd alla gestione diretta della Federazione. Se fosse stato così, la Federcalcio sarebbe stata responsabile dell'organizzazione dei campionati di serie A e B e si sarebbe aperto un varco per professionalizzare le calciatrici delle seconde squadre e invece, nonostante l’incontro avvenuto 24h dopo l’annullamento della delibera, fra il commissario straordinario della Figc, il presidente della lega nazionale dilettanti Sibilia, il presidente dell’Aic Tommasi e il vice presidente dell’Aiac Perdomi, è stata la lega Nazionale Dilettanti a calendarizzare i campionati con l’inizio fissato al 15 settembre per la massima categoria, la fine è prevista per il 20 aprile, il 14 ottobre per i cadetti B e C con la chiusura posta al 28. Nell’intermezzo la sfida di Supercoppa tra la Juventus e la Fiorentina che si doveva disputare il 25 agosto e che è stata poi rinviata per protesta delle suddette società coinvolte, segno, questo, di una palpabile consapevolezza di un movimento che inizia ad acquisire più sicurezza nei propri mezzi e che adesso vuole farsi sentire nella quaestio tra Figc e Lnd.

Malgrado continui a sussistere la dicitura di “Società sportiva dilettantistica” accanto alle seconde squadre di A e alle società degli altri campionati, tuttavia, qualcosa, seppur in una visione forzatamente riduzionista, sta cambiando. Se infatti il calcio femminile non produce business, in sostituzione ci pensano le ragazze a stipulare importanti contratti con gli sponsor sportivi e non solo. Questo il caso ad esempio di Regina Baresi dell’inter femminile, la prima giocatrice italiana a vestire il brand Adidas così come Laura Giuliani della Juventus e Cristiana Girelli del Brescia alle quali si è affidato il marchio Puma. Colossi che vantano naturalmente importanti collaborazioni sulla scena internazionale, come Ramona Bachmann del Chelsea e Alexander Popp del Wolfsburg, oppure Lieke  Martens, stella del Barcellona, che ha partecipato ad uno spot pubblicitario con i calciatori Eden Hazard e Philippe Coutinho per la Nissan. L’ultimo esempio, ma sono davvero tanti, è fornito da Amanda Sampedro dell’Atletico Madrid: il capitano mesi scorsi ha firmato un contratto di sponsarizzazione con Herbalife, per intenderci con la stessa azienda che ha scelto Cristiano Ronaldo per la propria campagna pubblicitaria.

Dunque, un punto di svolta anche per il calcio femminile europeo, che ad oggi conta in paesi come l’Inghilterra circa 215 professioniste, in Francia 126 e dopo il crollo del comunismo molti paesi dell’Est, come Bielorussia, Russia e Ucraina nel complesso 381.  Cifre tuttavia inferiori rispetto al numero di tesserate nel vecchio continente, ma che al tempo stesso risultano assordanti per “noi”, visto che il bel Paese non riconosce nessuna calciatrice come professionista. Con “altezzosa speranza”, nell’era digitale, ci sarà pure un modo per comprendere filologicamente la portata dei cambiamenti.

Elisa Lo Piccolo-Agenzia Stampa Italia

 

 

 

 

 

 

 

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