IN CONCLUSIONE
Il presente contributo ha avuto l'obiettivo di indagare le modalità di relazione tra attori pubblici e interessi privati nel sistema di tutela dei beni culturali in Inghilterra. Al riguardo il titolo dato ha posto un interrogativo circa i caratteri propri del modello espresso dall'ordinamento inglese al fine di valutarne la possibile esportazione anche in ordinamenti diversi.
La risposta a questa domanda potrà ovviamente avere un valore meramente tendenziale che prenderà forma solo attraverso l'esposizione, in sintesi, dei tratti fondamentali del regime giuridico posto a protezione del patrimonio culturale in Inghilterra individuando il ruolo riservato ai soggetti privati rappresentati, a seconda dei casi, dai proprietari dei beni soggetti a tutela, dagli enti esponenziali della collettività cui risulta assegnata la cura e la promozione dei valori culturali e dal pubblico inteso sia come fruitore dell'opera che come finanziatore.
Innanzitutto occorre dar conto di un limite di sistema sorto nel corso dell'analisi, vale a dire la constatazione che, a differenza di altri ordinamenti, lo studio della disciplina dedicata al patrimonio culturale è un settore quasi esclusivamente lasciato ai documenti prodotti dai soggetti attivi operanti nello stesso (attori pubblici o semi pubblici, organizzazioni rappresentative di interessi) e lasciato pressoché inesplorato dalla dottrina giuridica inglese
Tale caratteristica ha reso in parte più difficile l'approfondimento prefissato, tenuto conto della mancata elaborazione di un quadro dogmatico e concettuale di riferimento.
Nonostante ciò, storicamente anche nell'ordinamento inglese, come in molte altre esperienze giuridiche europee, le prime forme di tutela relative ai monumenti antichi e ai beni immobili di interesse storico, artistico e architettonico sono state connesse all'esigenza di sottrarre tali beni ai rischi di distruzione o di modifiche pregiudizievoli
Il fondamento giuridico alla base delle misure amministrative di tutela non è dissimile da quello elaborato nel secolo scorso dalla dottrina italiana :l'interesse pubblico alla conservazione - resa necessaria affinché le potenzialità qualitative del bene possano passare da una generazione all'altra - legittima una funzionalizzazione della proprietà, che, pur rimanendo privata, viene limitata in vista dell'utilità sociale che il patrimonio culturale esprime .
In altre parole, l'idea che contrappone l'interesse della collettività a preservare quei beni che rappresentano i valori della storia, dell'arte e delle tradizioni della Nazione, alle facoltà dominicali si è tradotta fin dalle origine nella elaborazione - spesso contrastata - del concetto di "cultural proprerty" e di "cultural heritage" tale per cui alla proprietà privata del bene si somma un elemento vincolistico ulteriore che esprime una qualità dello stesso immutabile rispetto ai passaggi generazionali.
Tali esigenze, che permangono ancora oggi nella legislazione di tipo conservativo, si sostanziano in poteri amministrativi di natura ablatoria e autorizzatoria, imponendo al proprietario o al detentore di un bene immobile di interesse culturale, registrato o inserito in una lista dei beni protetti, non solo di ottenere dall'amministrazione locale un'autorizzazione prima di iniziare qualsiasi intervento edilizio, ma anche di svolgere una corretta attività di manutenzione pena, in molti casi, l'emanazione di un provvedimento di espropriazione.
Appaiono di tutta evidenza l'importanza e la rilevanza della previsione di poteri pubblici autoritativi risalente al XIX secolo in un ordinamento dove, all'epoca veniva ancora fermamente disconosciuta l'esistenza stessa di un vero e proprio diritto amministrativo di cui essi rappresentano, quindi, una delle prime importanti manifestazioni .
Nel corso del tempo, al concetto di conservazione si è accostato ben presto quello di valorizzazione nella prospettiva di una fruizione pubblica dei beni tradotto nella terminologia inglese in vario modo, ma riconducibile alle nozioni di advancement e promotion.
Il principale riferimento normativo alle attività di valorizzazione si ritrova già nella legislazione dei primi anni del '900; il National Trust Act del 1907, infatti, stabilisce che tra i compiti del National Trust vi sia quello di "promuovere la conservazione del patrimonio culturale" (section 3(2)) al fine di garantire l'apertura dei siti e la fruizione di questi da parte della collettività (section 29).
Proprio nel contesto della promozione, l'attività dei soggetti privati si è rivelata determinante e tale da sviluppare una vera e propria amministrazione e gestione dei beni culturali svolta dalla libera iniziativa delle associazioni private e delle altre organizzazioni non lucrative (charities e trusts) .
A queste ultime infatti si deve la realizzazione di molte delle attività di tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali non solo attraverso la promozione della ricerca, dello studio e della formazione - come avviene per esempio nel caso delle national e local amenity societies - ma anche asservendo alcune delle logiche imprenditoriali agli scopi altruistici perseguiti, attività tipica soprattutto dei buildings preservation trusts.
Il ruolo dell'apparato pubblico è, di conseguenza, indiretto anche se non totalmente assente dal momento che vi è la necessità di creare tutte le condizioni affinché i soggetti privati possano esercitare efficacemente le propri funzioni.
Innanzitutto le organizzazioni non lucrative operanti nel settore sono sottoposte al controllo della Charity Commission, ente di regolazione e vigilanza, cui compete il controllo non solo della sostenibilità dei piani di gestione dei beni e delle opere culturali ma anche dei servizi offerti e dei regimi di finanziamento .
Per le istituzioni museali analoga funzione è svolta dal MLA che in sede di accreditamento valuta i valori inerenti a una sana gestione delle collezioni e alle modalità attraverso cui sono realizzati gli obiettivi legati all'esigenza della fruizione collettiva (orari, supporti, prezzi, strutture e servizi collegati) .
Tra gli interventi pubblici di supporto vanno poi letti gli apparati di finanziamento pubblico che, salva l'ipotesi dei musei di rilevanza nazionale, finanziati direttamente, prevedono lo stanziamento di fondi solo per i progetti ritenuti meritevoli sulla base delle valutazioni discrezionali dell'Arts Council of England, che distribuisce anche parte delle risorse raccolte attraverso il meccanismo della national lottery.
La normativa fiscale prevede poi incentivi piuttosto consistenti per i finanziamenti provenienti dai privati ottenuti mediante la conclusione di accordi di sponsorships o le erogazioni di carattere liberale. Queste ultime sono estremamente vitali per le charities che gestiscono i beni culturali, le quali possono prevedere differenti strumenti per la raccolta dei fondi necessari alle iniziative, a partire dalle donazioni legate a una singola iniziativa, fino a programmi di membership annuali o pluriennali.
Gran parte dei finanziamenti, inoltre, sono assegnati da organizzazioni non lucrative a carattere patrimoniale, le quali spesso prevedono l'assegnazione delle sovvenzioni a quei progetti che realizzino obiettivi particolari a sostegno di interessi ulteriori rispetto a quelli di conservazione e gestione, come per esempio l'educazione e l'accostamento dei giovani ai valori dell'arte e della cultura.
Il quadro che ne risulta contribuisce quindi a creare una logica di tutela diffusa ed aperta dove l'interesse pubblico è, nella sua traduzione in concreto, mediato dagli interessi di cui la stessa società civile si fa carico, realizzati spesso in termini piuttosto soddisfacenti come nel caso del National Trust che rappresenta probabilmente una delle maggior organizzazione non profit di tutela culturale e ambientale in Europa.
Certamente, quanto detto, non elimina alcuni profili problematici, primo fra tutti la mancanza di una normazione univoca ed esaustiva di riferimento che disciplini in modo coerente i principi fondamentali della materia e la loro attuazione.
Di tale esigenza si è fatto portatore lo stesso governo che nell'aprile scorso ha presentato al parlamento il disegno di legge da titolo Heritage Protection Bill il quale persegue l'obiettivo di unificare i regimi di protezione dei beni culturali immobili promuovendone la valorizzazione anche attraverso la conclusione di accordi di gestione con i privati interessati (Heritage Partnership Agreements).
Nella medesima direzione vanno anche gli accordi tra istituzioni museali diretti a migliorare la qualità dell'organizzazione e a potenziare i risultati della gestione e le esperienze di public - private parternships e community foundations realizzate a livello locale. In queste ultime sedi, infatti, le autorità locali, gli operatori privati, gli organismi di volontariato e le altre istanze provenienti dalla comunità dibattono, deliberano, finanziano e portano a compimento le politiche pubbliche culturali raccogliendo capitali privati per la realizzazione di progetti ritenuti meritevoli di finanziamento.
Innanzitutto dallo studio dell'ordinamento giuridico inglese emergono tre profili particolarmente interessanti: l'esiguità del ricorso alla disciplina legislativa a favore della emanazione di atti amministrativi generali a carattere spesso non vincolate, la preponderante presenza dei soggetti appartenenti al terzo settore che non solo gestiscono, ma finanziano e collaborano alla formulazione delle politiche, il recente ricorso a strumenti consensuali nella programmazione delle attività di gestione.
Il primo degli elementi considerati è sicuramente antitetico rispetto all'ordinamento italiano dove la presenza del Codice del beni culturali rappresenta sicuramente il punto di riferimento per la disciplina della materia. Non c'è dubbio che nel sistema d'oltre Manica esso determini un vuoto sistematico che è spesso causa di precarietà e di profili problematici nella ricostruzione degli strumenti giuridici da applicare. Tuttavia, lo stesso carattere di indeterminatezza consente in alcuni casi una maggior dialettica tra i soggetti interessati che agevola la formulazione di politiche di settore maggiormente efficienti.
Più complessa è la valutazione con riferimento agli altri due dati. Da un lato infatti il ruolo del settore privato inteso come organizzazioni non profit è caro anche agli studiosi italiani dell'ordinamento dei beni culturali che vi vedono una delle forme di attuazione del principio costituzionale di cui all'art. 118 comma 4 della Costituzione .
Più arduo sarebbe, però, sostenere che la presenza del settore non profit anche nell'ordinamento inglese confermi una difficoltà di fatto di attuare una piena gestione dei beni culturali secondo logiche aziendalistiche, apparentemente realizzate solo nelle attività collegate e nei servizi c.d. aggiuntivi.
Nel sistema inglese, infatti, sono presenti molti esempi che riguardano una gestione parzialmente imprenditoriale del patrimonio culturale come nelle ipotesi del Landmark trusto dei Buildings Preservation Trusts. Al riguardo si rivela però determinante l'operato della Charity Commission, la quale valuta caso per caso l'ammissibilità delle attività gestionali connesse ai fini istituzionali dell'organizzazione.
Questo perché una gestione sana del patrimonio culturale rappresenta il punto di partenza per il miglioramento degli interventi di tutela e conservazione che sono essenziali per il mantenimento dei valori di cui i beni sono portatori.
Potenzialità nel divenire modelli esportabili di amministrazione e gestione del patrimonio culturale vanno, infine, riconosciute alle previsioni relative agli atti di programmazione e pianificazione e alle sedi istituzionali di partecipazione sia a livello centrale che periferico.
Quest'ultime, sebbene in alcuni casi si siano rivelate di difficile attuazione - come nell'esempio dei Conservation Area Advisory Commitees - consentono, infatti, di realizzare degli strumenti giuridici di dialogo tra tutti i soggetti interessati all'elaborazione delle politiche culturali e alla traduzione in concreto degli interventi programmati (soggetti pubblici, soggetti privati proprietari, organizzazioni non profit, finanziatori). Fine.
Prof.Mauro Norton de Neville Rosati di Monteprandone de Filippis Dèlfico
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