(ASI) Si è concluso cinque giorni fa l'ultimo vertice del G7 a Hiroshima, in Giappone. Nella città tristemente nota, assieme a Nagasaki, per i bombardamenti nucleari statunitensi dell'agosto 1945, i leader delle sette potenze alleate - sei occidentali, cioè Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada, cui si aggiunge lo stesso Giappone - si sono riuniti per discutere i principali temi in agenda. Tra i tanti dossier spiccano la guerra russo-ucraina, la resilienza economica, la transizione ecologica e la sicurezza internazionale.
Nel comunicato congiunto, al primo punto tra i «passi concreti» che i sette attori stanno compiendo viene subito menzionata l'assistenza all'Ucraina, che intendono portare avanti «per tutto il tempo necessario in risposta all'illegale guerra di aggressione della Russia». Aspetto che stride, inevitabilmente, con il secondo punto, dove i leader citano il rafforzamento degli sforzi nella direzione del «disarmo e della non-proliferazione, verso il traguardo definitivo di un mondo senza armi nucleari e con una sicurezza immutata per tutti».
Se, da un lato, infatti, il rifiuto di qualsiasi ipotesi di negoziato con Mosca sta producendo effetti esattamente opposti, innescando una pericolosissima escalation ed avvicinando ogni giorno di più l'Europa al rischio nucleare, dall'altro è stata proprio l'inosservanza, da parte della NATO, del principio di indivisibilità della sicurezza internazionale ad aver contribuito - ovviamente assieme all'intransigenza russa - allo scoppio della guerra in Ucraina. La cosiddetta «sicurezza per tutti» è infatti legata al prerequisito che nessun Paese possa avvantaggiarsi in termini di sicurezza a scapito di qualcun'altro, creando così uno squilibrio: concetto venuto progressivamente meno nella regione del Mar Nero da quando Washington, nel 2008, ha avviato piani e negoziati per l'integrazione di Kiev e Tbilisi nell'Alleanza Atlantica.
Il piano di pace proposto a febbraio dalla Cina partiva esattamente dal combinato disposto delle due esigenze in campo: la tutela del principio di sovranità e integrità territoriale, rivendicato dall'Ucraina nei territori occupati, e le preoccupazioni russe in materia di sicurezza regionale e internazionale. Mosca, pur sostenendone l'inapplicabilità in questa fase del conflitto, aveva manifestato interesse per la proposta di Pechino. La NATO l'aveva invece preventivamente respinta addirittura prima che venisse ufficialmente pubblicata.
L'ostilità del blocco occidentale nei confronti del gigante asiatico è risultata piuttosto chiara anche durante i lavori del G7. Nel comunicato congiunto conclusivo, i leader hanno citato esplicitamente la Cina soltanto ai punti 51 e 52 del documento, all'interno del paragrafo dedicato agli affari regionali, ma già al primo punto degli obiettivi per cui il G7 si dice «determinato a lavorare insieme e con altri», compare il sostegno ad «un Indo-Pacifico libero e aperto» e l'opposizione a «qualsiasi tentativo di modificare lo status quo attraverso la forza e la coercizione».
Ferma restando l'inconsistenza, sia geografica che geopolitica, dell'espressione "indo-pacifico", questa è ormai diventata un mantra nell'agenda politica statunitense - e di conseguenza anche in quella europea - allo scopo di legittimare nuove o rinnovate partnership militari con India e Giappone, oltre all'Australia, in funzione di contenimento della Cina, come dimostrato dal ripristino del Quadrilateral Security Dialogue (QSD) alla fine del 2017. Questo tentativo di rimodellare le alleanze regionali nella direzione di una NATO asiatica, preoccupa non poco Pechino ma dovrebbe preoccupare soprattutto la comunità internazionale, a partire dall'Europa.
Le prime tre potenze del Vecchio Continente, cioè Germania, Francia e Italia, e la stessa UE, rappresentata all'interno del G7 dalla presidente Ursula von der Leyen, continuano dunque a sposare, senza battere ciglio, la linea dell'Amministrazione Biden. Da un lato, i leader riconoscono la necessità di «cooperare con la Cina, dati il suo ruolo nella comunità internazionale e le dimensioni della sua economia», dicendosi pronti a «creare relazioni stabili e costruttive» con essa. Dall'altro, però, annunciano di voler affrontare «le sfide poste dalle politiche e dalle pratiche non di mercato della Cina, che distorcono l'economia globale».
Ovviamente questo è il punto di vista occidentale. Nel resto del mondo, invece, sono in molti a chiedere la stessa attenzione per l'innumerevole elenco di sanzioni, dazi, pressioni ed interferenze adottate dagli Stati Uniti fuori dai propri confini, senza parlare degli improvvisi e ripetuti rialzi dei tassi da parte della Fed, che stanno mettendo in grave difficoltà molti Paesi in via di sviluppo. Secondo quanto contenuto nel suo World Economic Outlook del gennaio scorso, il FMI stima che il 15% dei Paesi a basso reddito sia in difficoltà debitoria, un altro 45% ad alto rischio di insofferenza, così come il 25% delle economie emergenti [M. Lettieri, P. Raimondi, Italia Oggi, 4/3/2023].
Puntualizzando di non voler danneggiare la Cina ed il suo percorso di sviluppo economico né di voler inseguire un piano di disaccoppiamento (decoupling), i leader del G7 specificano di voler limitarsi a ridurre gli eccessi di dipendenza nelle catene logistiche strategiche. Il riferimento, non scritto, è ovviamente alla filiera dei semiconduttori e a quella delle terre rare, di cui si è molto parlato nel corso dell'ultimo anno.
La diversificazione delle forniture e la riduzione dei rischi, anche alla luce dei colli di bottiglia emersi durante la pandemia, sono decisioni più che legittime, a condizione, però, che questo non consegni l'Europa, mani e piedi, al mercato nordamericano, come già accaduto con l'approvvigionamento energetico lo scorso anno, quando buona parte del gas naturale russo è stato sostituito da ben più costose importazioni di GNL dagli Stati Uniti. In quel caso, ciò che oggi viene presentata come "diversificazione" si trasformerebbe in un vero e proprio schiacciamento.
La sensazione, insomma, è che da qualche anno a questa parte, l'Occidente stia cercando di erigere un muro intorno a sé stesso, diffondendo l'illusoria immagine propagandistica del giardino contro la giungla, evocata recentemente all'Alto rappresentante UE Josep Borrell, e chiudendo i conti con la globalizzazione. Non perché questa possa aver prodotto (anche) effetti nocivi su chi ne è stato danneggiato in passato, ma semplicemente perché questo processo non è più controllabile ed orientabile da due o tre capitali (occidentali) nel mondo, come invece avveniva un tempo.
In realtà, nella globalizzazione, oltre agli aspetti più strettamente politici, che l'hanno (de)regolata negli ultimi quarant'anni, vi è una dimensione oggettiva, ormai irreversibile: la tendenza storica ad un certo livello di interdipendenza tra le economie del mondo, nel quadro di un sistema multilaterale del commercio che - certamente - necessita di riforme e nuove regole ma che al tempo stesso non può essere stravolto né sradicato.
Stando ai dati del FMI e della Banca Mondiale, tra il 1992 e il 2022, il peso economico complessivo dei Paesi del G7 sul PIL globale è sceso dal 68,1% al 43,7%. Nel periodo 2013-2021, il contributo delle sette economie alla crescita globale è stato appena del 25,7% [quasi interamente determinato dagli Stati Uniti, con il 18,6%], contro il 38,6% della sola Cina. Sempre a questo riguardo, tra il 2020 e il 2021 è avvenuto il sorpasso anche da parte dei BRICS nel loro insieme, che alla fine di quest'anno dovrebbero registrare un dato pari al 32,1%, contro il 29,9% dei G7, per raggiungere, secondo le previsioni, il 35% nel 2028, contro il 27,8% dei G7.
Che questo declino sia il vero dilemma di fondo dell'Occidente lo si capisce quando i sette leader passano ad affrontare i principali temi politici nel confronto con la Cina. Non ci sono dossier internazionali potenzialmente al centro di meccanismi di cooperazione con Pechino, come ad esempio la stabilizzazione dell'Afghanistan, abbandonato a sé stesso dopo un ventennio di occupazione militare USA-NATO, bensì riferimenti ad affari interni, rispetto ai quali i principali Paesi occidentali continuano ad interferire. A cominciare da Taiwan, dove si chiede «una soluzione pacifica alle questioni lungo lo Stretto», omettendo i fondamenti giuridici che riconoscono a Pechino la piena sovranità su quei territori insulari (Risoluzione ONU 2758/1971) ed impediscono ad attori esterni qualsiasi ingerenza, come ad esempio la fornitura di armi che regolarmente gli Stati Uniti garantiscono ormai da decenni a Taipei, in violazione del diritto internazionale e degli stessi tre comunicati congiunti Cina-USA del 1972, 1978 e 1982.
Spazio anche per le frizioni sul Mar Cinese Meridionale, dove attori completamente estranei a queste acque, come i protagonisti del G7, si dicono «seriamente preoccupati per la situazione» ed affermano di «opporsi con forza a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo attraverso la forza o la coercizione». Intrusioni in uno scenario dove individuare soluzioni condivise spetta semmai alle numerose piattaforme di dialogo Cina-ASEAN, già al lavoro da anni in materia di Codice di Condotta marittimo.
Si passa poi alle accuse, mai dimostrate, di sfruttamento del lavoro forzato nello Xinjiang, per arrivare a Hong Kong, dove i sette leader invocano la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984 come base legale dell'ordinamento locale, quando in realtà la Legge Fondamentale, promulgata a Pechino nel 1990, che regola la Regione Amministrativa Speciale è un "derivato giuridico" - e non potrebbe essere diversamente - della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese. Senza contare che questo elevato grado di autonomia - come previsto dal modello Un Paese, due sistemi - dovrà cessare nel 2047.
Singolare, infine, la richiesta a Pechino di esercitare pressione sulla Russia affinché «cessi la sua aggressione militare e ritiri immediatamente, completamente ed incondizionatamente le sue truppe dall'Ucraina», appellandosi all'integrità territoriale e agli altri principi fissati dalla Carta dell'ONU. Principi, insomma, che, secondo il G7, valgono per l'Ucraina ma non per la Cina. Mistero.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia