
Preoccupante è che in tutti i Paesi sviluppati le vendite di questi farmaci segnino una parabola ascendente, favorita da una politica pubblicitaria da parte delle industrie produttrici evidentemente vincente. Il punto di forza di questo circuito di vendite è costituito dalla pressione che gli informatori sanitari riescono ad esercitare sui medici, spesso propiziata da interessi commerciali bilaterali. Se è ormai dimostrato che tali farmaci assumono una funzione palliativa e non curativa, è al contempo innegabile che i veri beneficiari del loro consumo sono i fatturati delle industrie produttrici. Appurato è inoltre un allarmante fatto, ossia che è sempre più frequente - a fronte di un aumento convulso dei consumi - che l’assunzione di psicofarmaci possa rivelarsi dannosa, talvolta foriera di patologie psichiche che all’inizio della “cura” farmaceutica non sono presenti nel paziente. Appena due anni fa l’Organizzazione mondiale della sanità ha redatto un documento dal quale emergeva che solo sei pazienti su dieci, tra quelli che assumono antidepressivi, ne traggono beneficio. Del resto, i dati emersi nei giorni scorsi dagli Stati Uniti non si discostano da quelle conclusioni: solo una paziente su tre ha diagnosi di malattia severa, e l’uso di questi farmaci è quasi ad esclusivo appannaggio delle classi sociali agiate (i neri e gli ispanici, relegati ai margini della società americana e dunque, giocoforza, meno sensibili alle persuasioni consumistiche, non arrivano insieme a costituire il 7% dei consumatori di psicofarmaci). Il National Center for Healt Security lancia un campanello d’allarme preciso e ancora più desolante: l’11% dei bambini di dodici anni, negli Usa, assume tali prodotti, che riguardano, per altro, le ricette più prescritte per gli adulti. Somministrare farmaci di questa portata ai bambini è un gesto, da parte dei medici, quantomeno imprudente, se si considera la gravità di alcuni dei loro effetti collaterali.