(ASI) Padova - Lo scrivente abita a 27 km circa da Vo' Euganeo, provincia di Padova, luogo di uno dei primi focolai d'Italia. Inizialmente, quando i cittadini italiani e veneti avevano sentito parlare, a fine febbraio, per la prima volta di zona rossa, di divieto di entrata o uscita dalla stessa, avevano inteso che si trattasse di una situazione transitoria, e soprattutto confinata al paesino dei Colli Euganei.
A distanza di un mese, non solo l'intero Paese è isolato, con divieto di allontanamento dal proprio comune di residenza, non solo i collegamenti ferroviari sono ridotti all'osso e le autostrade sono deserte, non solo i tram non circolano più nelle città, ma l'Italia intera è zona rossa, un gigantesco campo di battaglia contro un nemico invisibile, giacché ci viene continuamente ripetuto di essere nel bel mezzo di un conflitto. E chiaramente, quando si è in "stato di guerra", le libertà personali vengono abolite o limitate.
Ebbene, andiamo per ordine. Una delibera pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, datata 31 gennaio 2020, spiega "in considerazione di quanto esposto (ai sensi ...) del Dlgs. 2 gennaio 2018, n. 1, è dichiarato, per sei mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili". La delibera è a firma Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri, ed è datata 31 gennaio. E' un chiaro riferimento alla crisi sanitaria scoppiata a Wuhan, in Cina. Quindi, il Governo Italiano, consapevole dei rischi, ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio, della durata di sei mesi, senza comunicarlo con altri canali alla popolazione. Tuttavia, il focolaio italiano, è stato segnalato a fine febbraio, e le misure restrittive, inizialmente per Veneto e Lombardia, poi estese all'intero paese, sono partite quasi un mese dopo la delibera della Gazzetta Ufficiale. Questo, significa una cosa sola: che il Governo Italiano, si è mosso con un mese di ritardo, sottovalutando i rischi connessi ad un'epidemia divenuta pandemia globale. E questo è totalmente inspiegabile. Si è poi passati alla seconda fase, quella mirata a limitare l'azione del virus, utilizzando tutti i possibili strumenti normativi.
L'8 marzo è lo spartiacque italiano. Un Dpcm (Decreto Presidente Consiglio dei Ministri), dapprima dato in bozza alla stampa (causando panico tra la popolazione, nonché fughe irrazionali dal territorio nazionale per evitare quarantene e misure restrittive, veicolando così maggiormente il virus), vieta lo spostamento dal proprio Comune di Residenza, con mezzi pubblici o privati, se non per "comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza, o di motivi di salute". Esse devono avere carattere di quotidianità, devono essere in ragione di brevi distanze percorse. Nascono le cosiddette "autocertificazioni", grazie alle quali il cittadino può normalmente recarsi al supermercato, a lavoro, a visitare i parenti anziani. Comincia il blocco quasi totale del paese, la guerra a chi cammina per strada, a chi pratica sport all'aria aperta, considerando lo sportivo un potenziale propagatore (al di là delle opinioni discordi degli esperti, ove una frangia ben nutrita, afferma che lo sport all'aria aperta rafforzi il sistema immunitario e scatena le endorfine generando serenità in contrasto alla crescente ansia e paura).
A questo punto centinaia di migliaia di italiani, si sono chiesti chi stabilisca che cos'é una situazione di "assoluta urgenza" (Nel Dpcm del 22 marzo 2020, all' art. 1, comma 1, lett. b) non sono tipizzati i casi). Chi aveva inoltre il potere di stabilire a quale fattispecie concreta rientrasse tra le "situazioni di necessità" non era chiaro. Questi decreti, ma soprattutto lo stesso decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, nella legge ordinaria dello Stato 05 marzo 2020, n. 13 che ne legittima l'adozione ai sensi dell'art. 3, comma 1, incorrono nella possibile violazione dell'art. 25, comma 2, della Costituzione della Repubblica, in ragione del mancato rispetto del principio di determinatezza. E non è cosa da poco.
Un potere che è stato gestito solamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri, per fronteggiare la grave situazione sanitaria, non è formula corretta in una democrazia parlamentare, in uno stato di diritto, con leggi e costituzione che regolano la vita civile del Paese. La tenuta delle istituzioni democratiche si basano proprio sul confronto parlamentare, e come se non bastasse, non essendoci stato un quadro unitario normativo, le Regioni hanno adottano ordinanze con non pochi profili critici, dovute proprio all'assenza di un intervento statale unitario, chiaro e uniforme sul territorio nazionale.
Arriviamo infine alla terza fase, la più drammatica, quella definita "lockdown", ossia l'abbassamento totale delle serrande, e la chiusura pressoché totale del Paese, comunicata, dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte tramite una diretta Facebook (!) al Paese alle 23.30, orario piuttosto insolito per annunciare un'ulteriore stretta sulle pochissime attività rimaste ancora in funzione (quelle strategiche alla Nazione, ma quali non lo sono?). Ora come ora, sono attivi supermercati e farmacie, piccoli negozi di generi alimentari, edicole e qualche piccolo distributore, qualche ufficio postale e qualche banca. Le pubbliche amministrazioni hanno adottato, così come moltissimi altri lavoratori privati, il lavoro agile o "smart working", cercando di svolgere le proprie mansioni da casa.
Non è questo il punto, tuttavia. La narrazione governativa, continua ad imputare a coloro i quali escono di casa, le possibilità di contagio. Si è volutamente cercato di inasprire le pene per chi viola le disposizioni dei decreti, si è proceduto a modificare tre autocertificazioni per circolare sul territorio nazionale in dieci giorni, invece di salvaguardare il sistema economico, che sta andando a scatafascio. Allo stesso tempo, mentre il Presidente della Repubblica chiedeva unità e collaborazione, insorgeva nel Paese un clima di accuse e di delazione, che ha esposto le persone alla disgregazione, non solo fisica ma anche psicologica. Sono nati gruppi sui social network atti a segnalare possibili violazioni delle misure anti Covid19. Ogni giorno normali cittadini, prima intenti nei loro lavori o attività, telefonano per individuare persone da loro sospettate (e si badi bene, non colpevoli, neanche da punto di vista penale, se non violano la quarantena e sono positivi al virus) alle forze di Polizia e Carabinieri di aver in qualche modo sgarrato, nella presunzione che ciascuno di noi agisca sempre in maniera più corretta dell'altro. Se si esce per strada, si possono incontrare sguardi truci, ostili, neanche fossimo sotto un bombardamento fisico durante uno scenario di guerra. E' venuta a mancare la solidarietà, la socialità, il valore dell'amicizia e soprattutto, della buona fede delle persone. Emblematico il caso di un medico che rientrava dall'ospedale in bicicletta, accolto da una secchiata d'acqua mentre attraversava un quartiere, reo, di circolare durante la quarantena. Oppure, a Padova, un quartiere che ha dichiarato di essere inaccessibile se non ai residenti, e i suoi abitanti hanno asserito di segnalare chiunque varchi i suoi confini. Non è finita, per quanto concerne le sperimentazioni anti violazione della quarantena, annoveriamo le proposte di monitorare i cellulari e la loro tracciabilità, l'utilizzo di droni e localizzatori e persino i braccialetti elettronici, parificando la quarantena agli arresti domiciliari. Misure pericolosissime in uno Stato di diritto, con leggi ben chiare sulla privacy e sulla libertà di movimento, anche in ragione di un'epidemia sanitaria!
Non è calata solamente la solidarietà tra italiani (al di là del lavoro encomiabile e straordinario del personale sanitario e di chiunque si sia messo a disposizione per vincere questa battaglia), ma il virus ha messo in evidenza tutte le fragilità, interne al Paese ed esterne. Difatti, gli aiuti in uomini, mezzi e medicinali, sono provenuti dai seguenti Paesi: Vietnam, Cina, Russia, Cuba, Egitto e da una Ong religiosa americana. In contrapposizione all'assordante menefreghismo dei nostri “partner” europei, questi Paesi ci hanno dimostrato un affetto sincero nella speranza, anche, di rivedere le relazioni del blocco occidentale. Di questo dobbiamo ringraziare la magnifica rete di relazioni internazionali instaurata durante la Prima Repubblica. Da Enrico Mattei ad Aldo Moro, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi. La quale, nonostante fenomeni di rottura come sanzioni ed embarghi sotto pressioni, resiste ancora, e la dimostrazione palese è avvenuta proprio in questi giorni.
Questo virus, che ha messo smascherato l'inconsistenza del sogno europeo (Spagna ed Italia devono inginocchiarsi, han detto i falchi del nord), che ha messo in luce l'inadeguatezza della gestione della crisi da parte del Governo a colpi di Decreti che abrogano a loro volta altri decreti, in un Parlamento misteriosamente assente, ci ha fatto comprendere quanto siano importanti le libertà di cui godiamo da 75 anni, e soprattutto, quanto sia stato sbagliato aver tagliato in maniera bipartisan tra destra e sinistra, i fondi alla sanità e alla ricerca medica. Ora, i partiti che chiedono l'abolizione del Servizio Sanitario Nazionale, come +Europa, dovrebbero interrogarsi su cosa significhi privarsene e affrontare una pandemia senza il suo ausilio.
Infine un appello, da queste righe. Non andrà tutto bene se non riapriamo, il prima possibile, le attività. In questi giorni, ai Comuni stanno pervenendo solamente richieste di sospensione di pagamenti, o di chiusure di attività commerciali per fallimento. Qualora lo Stato attraversasse veramente una crisi di liquidità mai vista, le tensioni sociali potrebbero sfociare in qualcosa di mai visto prima. I piani d'emergenza degli stati esteri sono stati annunciati in centinaia se non migliaia di miliardi di euro o dollari. Il nord Europa, così contrario agli aiuti ai Paesi del sud, impersonato dalla Germania, ha previsto uno sbalzo del proprio debito dal 60 al 90%. In America, Donald Trump ha lanciato un piano di mille miliardi di dollari. L'Italia, ne annuncia 25, di miliardi. Qualcosa non torna. Non solo dobbiamo ripartire, ma utilizzando le misure giuste, che non si identificano, in nessun modo, nella firma del trattato del Mes.
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia