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(ASI) L’organismo sovranazionale intorno cui ruota la politica economica e finanziaria dell’Italia è il Fondo monetario internazionale, direttamente collegato all’Onu e figlio degli accordi di Bretton Woods, stipulati nel luglio 1944.

Queste norme sono state stilate nel pieno del conflitto mondiale e quindi solo dalle nazioni che si apprestavano a vincere la guerra e che volevano organizzare il nuovo mondo secondo i loro desideri. Dagli incontri tenutisi negli Stati uniti sono scaturite anche la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, ora mutata in Banca Mondiale, ed il Gatt, l’accordo generale sulle tariffe ed il commercio, tutti soggetti inseriti nella medesima rete liberista.

Questa organizzazione, nata ufficialmente nel 1946, conta attualmente 186 membri. L’Italia fa parte del gruppo principale, ovvero di quei 20 stati che hanno una maggiore influenza politica ed economica su tutta la struttura. Questa associazione si prefigge come scopo quello di promuovere la globalizzazione visto che punta a stabilire e rafforzare la cooperazione monetaria internazionale, facilitare l’espansione del commercio internazionale, cercare di garantire la stabilità tra le valute e mettere a disposizione degli Stati membri le cifre di cui hanno bisogno per esigenze interne. In particolar modo dovrebbe regolare la convivenza economica e favorire lo sviluppo delle regioni più povere del mondo, anche se dal 1946 ad oggi queste non hanno fatto grandi passi in avanti ed anzi fin troppo spesso il divario tra ricchi e poveri ha continuato ad allargarsi a dismisura.

L’Fmi è composto da un Consiglio dei governatori, dal Consiglio esecutivo, e dal Direttore operativo.  Il ruolo dell’Italia in questa struttura è legato al sistema di voto, ponderato a seconda della quota detenuta, il nostro Paese incide per poco più del 3% su tutte le decisioni.

Rispetto agli originari accordi di Bretton Woods, ora l’Fmi si occupa sostanzialmente di concedere prestiti ai propri membri in caso di squilibri della bilancia di pagamenti, anche se il costo che gli Stati sono poi chiamati a sostenere per assecondare i dettami dell’Fmi è quanto mai alto. Il problema, infatti, è che essendo portavoce dell’ultra liberismo più selvaggio subito dopo aver aiutato i Paesi che ne hanno bisogno impone forte tagli alle spese pubbliche, ovvero allo Stato sociale, e aumento delle imposte con conseguenti privatizzazioni massicce di tutti quei servizi originariamente garantiti dallo Stato con conseguenti ripercussioni sulle tasche dei cittadini.

Il peso di questa organizzazione è molto elevato in termini di politica economica, ma in Italia c’è perfino chi vorrebbe vederlo crescere ancora di più.

Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, parlando della recente crisi economica e delle possibili soluzioni per uscirne, ha spiegato che pur se il compito di varare riforme finanziarie spetta ai singoli Stati ha auspicato, in tema di governance, che il Fondo Monetario Internazionale arrivi a rafforzarsi, configurandosi come un World Economic Council.

Al di là degli auspici di Tremonti, davanti ad un mondo e ad una economia in continua evoluzione in un futuro non troppo lontano il Fmi potrebbe realmente cambiare fisionomia. Questo è infatti il “buon proposito” scaturito dall’assemblea annuale tenutasi nel settembre del 2009 ad Istanbul al termine del quale i partecipanti hanno annunciato che verrà dato più peso ai Paesi in via di sviluppo.

In seguito alla nascita del nuovo G20, destinato inizialmente ad affiancare quindi a rimpiazzare il G8, infatti anche l’istituto di Washington dovrà rivedere i propri equilibri interni a vantaggio delle economie in via di sviluppo, una promessa che più o meno a cadenza periodica torna a primeggiare sui media mondiali ma che alla fine della fiera torna nel dimenticatoio per essere riesumata all’occorrenza.

Secondo le ultime prospettive, comunque, a medio termine il 5% delle quote del Fmi dovrebbero essere trasferite ai Paesi emergenti e a quelli in via di sviluppo. A rimetterci le quote, e la relativa influenza, gli Stati europei, anche se l’Italia per il momento non sembra rientrare nella rosa dei papabili.

 

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