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(ASI) L’arresto dei nostri due marò da parte delle Autorità indiane ha generato uno scontro diplomatico tra Italia e India il quale sta travalicando i confini strettamente giuridici. Si può tastare il polso alle reazioni di larghe fette della popolazione indiana dando uno sguardo ai titoli forcaioli di alcuni giornali indiani o facendo un giro in Rete, ove tra forum e social network allignano i commenti offensivi di molti utenti.

Va compreso che la crisi si sta infittendo oltremodo, poiché in atto non vi è più soltanto una controversia di diritto giuridico, bensì un conflitto dai toni nazionalistici e religiosi prima ancora che politici. E in un Paese come l’India questi due aspetti possono determinare dinamiche per noi inconcepibili, ma che proviamo ora ad analizzare brevemente.

Il nazionalismo. La duratura e sanguinosa colonizzazione britannica ha lasciato nell’immenso Paese asiatico una ferita che non si è ancora rimarginata, basta davvero poco per provocare la suscettibilità indiana sul tema dell’emancipazione dalle cosiddette “potenze occidentali”. La telefonata del premier italiano Monti alla sua controparte indiana Manmohan Singh è stata interpretata dall’opinione pubblica indiana come l’ennesimo atto di arroganza post-coloniale nei confronti dell’India; da qui una serie di commenti dispregiativi verso i bianchi, i “gora”, ritenuti colpevoli di essere riluttanti all’idea per cui l’India sia oggi una delle maggiori economie mondiali. L’aspetto nazionalista si intreccia, poi, con una vicenda squisitamente politica, che vede nell’origine italiana dei due marò incriminati il motivo del contendere. I più fanatici nazionalisti indiani hanno da sempre nell’italiana Antonia Edvige Albina Maino, detta Sonia, vedova dell’ex Primo ministro Rajiv Gandhi e attualmente presidente del Partito del Congresso Indiano, un obiettivo dei loro attacchi razzisti. Sonia Gandhi, che per due volte ha dovuto rinunciare alla carica di premier per pressioni di questo tipo, è ora accusata dalle stesse frange estremiste di voler proteggere i due marò italiani a scapito degli interessi dell’India. Considerando che l’arresto dei militari Latorre e Girone è avvenuto nella zona di Kerala, amministrata dal Partito del Congresso, che proprio alle elezioni regionali di questi giorni rischia di subire una cocente, storica sconfitta, si evince come le logiche di politica interna si siano impadronite della vicenda. Una data importante potrà essere il prossimo 24 marzo, quando saranno annunciati i risultati definitivi del voto regionale e gli animi degli oppositori di Sonia Gandhi, oggi infervorati dall’attesa degli scrutini, forse si saranno rasserenati un po’ per via della probabile sconfitta del partito che così ostinatamente avversano.

La religione. L’origine italiana di Sonia Gandhi chiama in causa pure un altro aspetto che rende intrigata ed ostica la vicenda, ovvero l’esclusivismo induista. Nonostante gli estremisti indù non rappresentino neanche l’1,9% della popolazione indiana, le loro lobby esercitano un’enorme influenza su una società rigorosamente suddivisa in caste come quella indiana, tanto da far valere rivendicazioni feroci e intolleranti presso lo stesso Governo. Le politiche indiane, d’altronde, sono zavorrate dalla rigida osservanza del sistema castale, il quale prevede forti discriminazioni nei confronti dei “dalit” (fuori casta), di cui fanno parte cristiani e musulmani. Anche alle caste più basse e povere, spesso ridotte cinicamente alla fame da questo sistema discriminatorio, è concesso qualche seppur minimo beneficio, in quanto formate da indù e sikh, che è invece negato ai “dalit”. All’interno di questa severa struttura economico-sociale gioca dunque un ruolo determinante la confessione religiosa. Per cui, se è da ritenere intollerabile concedere diritti a cristiani e musulmani, è persino blasfemo che un’italiana come Sonia Gandhi occupi un ruolo di potere. Figurarsi se queste espressioni di fanatismo induista si possano mai ammansire di fronte a due militari italiani accusati di aver ucciso dei pescatori indiani. Questo affronto non è tollerato dalle lobby del fanatismo induista, le quali costringono il Governo ad applicare una linea dura, finanche inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale, pur di non abdicare quella serie di obbedienze religiose che non indulgono neanche davanti ad una vicenda che richiederebbe buon senso da parte di tutte le parti in causa. Ma dove la violenza è di casa la ragionevolezza latita. E’ forse opportuno rammentare che in Italia non si ha la misura di quanto tutt’altro che non-violenta e ottusa possa essere talvolta la religione induista. Esotismi e mode “new age”, diffuse nel nostro Paese soprattutto a partire dagli anni ’70, ci hanno proposto un’immagine sdolcinata, spesso non veritiera, delle filosofie orientali. E’ per questo, verosimilmente, che l’opinione pubblica italiana fa ancora fatica a considerare che l’India sia sovente teatro di violenze per motivi religiosi, di cui le principali vittime sono coloro i quali - ironia della sorte - in un immaginario collettivo viziato da preconcetti sarebbero invece, per definizione, i carnefici e i bigotti: i cristiani e i musulmani.

 

Alla luce di questi elementi si può asserire che i nostri due marò sono prigionieri di una matassa assai ingarbugliata, con fili rivestiti di materiali, quali nazionalismo d’epoca coloniale e violento fanatismo religioso, che l’Occidente “progredito” si vanta di rifiutare. Quando, tuttavia, le esigenze del “mercato globale” obbligano gli Stati occidentali a misurarsi con le economie emergenti di Paesi non infatuati dal mito del progresso, può capitare che emergano lampanti divergenze che possono scaturire, come accaduto in questo caso, in crisi diplomatiche. Per dirimere tali matasse - apparentemente solo giuridiche - sarebbe opportuno conoscere meglio una complessa realtà sociale e religiosa come quella indiana, rinunciando una volta tanto a quell’atteggiamento snob economicista che rivolge le proprie attenzioni solo sul tasso di crescita del prodotto interno lordo e sull’eccezionale sviluppo industriale di certi Paesi emergenti.

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