(ASI) - Il crescendo della tensione bellica tra Israele e Iran delle ultime settimane, continua a preoccupare il mondo intero, tanto che il presidente americano Donald Trump è tornato sulla scena politica internazionale, dichiarando di voler valutare un intervento militare degli USA in Medio Oriente e in particolare in Iran.
Teheran è infatti accusata dal presidente Trump di aver effettuato o sostenuto indirettamente, attacchi contro Israele, contro basi USA e contro infrastrutture strategiche in Siria, Iraq e Arabia Saudita. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal sulla base di alcune indiscrezioni del Pentagono, i piani militari americani sarebbero già delineati e prevederebbero delle azioni militari mirate a colpire obiettivi strategici iraniani, in particolare l’impianto nucleare bunker di Fordow che si trova novanta metri sottoterra, alcuni magazzini missilistici e i centri di comando della repubblica islamica.
L’incognita che spaventa di più è la presunta potenza nucleare dell’Iran: il presidente Trump sostiene infatti che in sole due settimane, Teheran potrebbe riuscire a costruire un’arma nucleare pronta per essere utilizzata. Tuttavia il direttore generale dell’Agenzia Atomica Internazionale (Aiea), Rafael Grossi, smentisce questa supposizione in vista dell’assenza di prove certe, anche se non esclude possibili attività clandestine in merito. Ed è per questo che Trump con una sorta di attacco preventivo mirato, vorrebbe rallentare la realizzazione di quest’arma o in ogni caso ritardare i progressi nella realizzazione, forzando così l’Iran a negoziare. Il presidente USA ha affermato che la decisione su un eventuale intervento armato americano, avverrà al massimo entro due settimane.
Oltre a questa preoccupazione, esistono anche motivazioni di tipo politico e geopolitico: in primis le prossime elezioni governatoriali americane, alle quali Trump vuole ribadire la sua narrativa di forza, come Commander-in-Chief (comandante supremo) delle forze armate statunitensi e puntare a raccogliere maggiori consensi dall’opinione pubblica. La fazione democratica del Congresso invece, chiede legittimazione, in quanto l’ultima parola in caso di guerra è del Congresso. La pretesa è quella di poter consultare i piani militari presidenziali e discuterne l’eventuale attuazione. Oltre a questo freno politico interno, un’incontrollata escalation in Medio Oriente potrebbe portare anche alla chiusura dello Stretto di Hormuz (già minacciata dall’Iran), che comporterebbe un aumento del prezzo del petrolio fino a 150 dollari al barile (ossia più del doppio del prezzo attuale), con conseguente rischio di innescare una nuova crisi economica internazionale con ripercussioni devastanti sull’economia mondiale.
Ma c’è davvero da aver paura? Il timore per un nuovo conflitto non è completamente infondato: interventi militari mirati, non porterebbero immediatamente a una guerra aperta, quindi la speranza è quella di attuare una sorta di deterrenza del problema. La diplomazia in questo caso specifico ha già dimostrato la sua pochezza in termini risolutivi, ma è anche chiaro che un conflitto armato non sarebbe auspicabile da nessuna delle parti.
Carlo Armanni - Agenzia Stampa Italia