(ASI) Hiroshima – Un fine settimana ricco di discussioni per i membri del G7. I rappresentanti delle sette potenze mondiali si sono incontrati dal 19 al 21 maggio nella città nipponica simbolo dell’orrore nucleare.
I capi politici di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti sono stati accompagnati dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Oltre alle figure di spicco dell’Ue, hanno presenziato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, nonché numerosi delegati di Australia, Brasile, India, Indonesia, Repubblica di Corea, Vietnam.
Quello di Hiroshima, insomma, è stato un vertice allargato sia per la quantità di legazioni estere invitate sia per l’ampio ventaglio di temi affrontati. Un vertice popolato dagli ingombranti fantasmi di Cina e Federazione russa, che con la loro crescente assertività stanno mettendo sempre più in discussione l’ordine globale immaginato dall’Occidente.
Non a caso, i partecipanti non hanno perso occasione per mostrarsi “più uniti che mai”, come si legge nel comunicato congiunto redatto al termine dei lavori. Un messaggio inequivocabile, questo, che assume le sembianze di un avvertimento per le ambizioni egemoniche di Pechino e Mosca.
Il primo punto all’ordine del giorno non poteva non essere la drammatica situazione in Ucraina. Accanto alla condanna della “brutale guerra di aggressione della Russia”, i membri hanno ribadito a Kyiv il loro “supporto diplomatico, finanziario, umanitario e militare” finché non si conseguirà una “pace totale, giusta, duratura” in linea con i principi del diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite.
Fino ad allora, non si placheranno le pressioni sul Cremlino e sulla cerchia di fedelissimi attorno a Vladimir Putin. Da Hiroshima è stata annunciata un’ulteriore stretta all’esportazione di materiali impiegabili a scopi militari. Tra le ulteriori misure mirate a indebolire Mosca figurano controlli rafforzati sull’effettiva implementazione delle sanzioni, il blocco del fruttuoso commercio dei diamanti russi, limitazioni all’operatività delle filiali di banche russe localizzate in paesi terzi.
Il braccio di ferro contro il Cremlino si estende ben oltre la questione ucraina. Il comunicato ufficiale menziona nero su bianco la “grande preoccupazione” per “l’impatto destabilizzante e gli abusi dei diritti umani” connessi alla presenza della compagnia privata Wagner in Africa. I mercenari al soldo di Evgenij Prigožin, sanguinario braccio destro di Putin, stanno usando qualsiasi mezzo per sedurre i governi dei paesi poveri e indurli a voltare le spalle all’Unione europea e agli Stati Uniti.
Ugualmente dannoso è il sostegno dell’Iran, fornito sottoforma di droni da combattimento successivamente sfruttati dall’esercito moscovita per attaccare le infrastrutture civili in Ucraina. Una realtà da tempo documentata, che è costata al regime dell’ayatollah Khamenei l’imposizione di pesanti sanzioni da parte di Washington e Bruxelles. A Teheran i capi del G7 hanno ripetuto: “L’Iran deve cessare immediatamente di appoggiare l’aggressione russa all’Ucraina”.
Eppure, a ben vedere per l’Occidente le azioni messe in campo dall’ambiziosa Pechino non risultano certo meno gravose. A cominciare proprio dalla maniacale attenzione del paese del dragone a non intervenire negli sviluppi bellici orientali. Dopo la vibrante delusione per l’ambiguo “piano di pace”, il G7 è tornato a chiedere esplicitamente a Xi Jinping di “fare pressione sulla Russia” per convincerla a ritirarsi “immediatamente, completamente e incondizionatamente” e ad accettare una pace basata “sull'integrità territoriale e sui principi della Carta delle Nazioni Unite”.
Ma gli attriti non si fermano alla crisi ucraina. Da Hiroshima, infatti, i capi politici hanno protestato contro le pratiche commerciali scorrette di Pechino, responsabili a loro dire di “destabilizzare l’economia globale”. Il riferimento è alle pressioni esercitate sulle aziende occidentali operanti in Cina per ottenere illegalmente preziose informazioni tecnologiche e mettere le mani su importanti dati riservati.
Ciononostante, tutti hanno concordato sulla necessità di intrattenere con il dragone “relazioni costruttive e stabili”, pur non rinunciando “agli interessi nazionali”. E così, la formula diplomatica adottata è stata quella della “riduzione dei rischi” e non quella dello “svincolamento totale”. Una formula che, in altre parole, consentirà un’attenta selezione dei temi su cui collaborare con Pechino, avendo cura di diversificare l’approvvigionamento di fonti e materie prime e valutare bene le competenze da scambiare per non ripetere il medesimo errore commesso con la Russia.
Gli Stati Uniti e l’Unione europea, ad esempio, hanno recentemente approvato due simili normative che di fatto impediscono alle aziende di esportare in Cina materiali e componenti elettronici “a duplice uso”, cioè spendibili pure a fini militari. La partita si gioca, altresì, “sulla pace e la stabilità” di Taiwan. Tradotto: l’Occidente non tollererà eventuali passi falsi cinesi. La piccola isola, d’altronde, è preziosissima per entrambi i contendenti a causa del pressoché indisturbato monopolio sulla produzione di semiconduttori. E senza questi minuscoli componenti, nessuno dei nostri dispositivi elettronici sarebbe in grado di funzionare.
A pochi passi dal memoriale che conserva l’atroce memoria della bomba atomica, le grandi potenze hanno reiterato il richiamo a mantenere lo status di non proliferazione nucleare e a ripudiare qualsiasi forma di violenza per dirimere le controversie. Oltre alle minacce nucleari recentemente avanzate da Russia e Iran, il riferimento è al riemergere della tensione e delle crudeltà fra israeliani e palestinesi, soprattutto il seguito alla formazione del nuovo esecutivo di estrema destra di Benjamin Netanyahu.
Affrontata, poi, l’impellente criticità del cambiamento climatico. I vertici politici hanno assicurato azioni tangibili, ad esempio contenendo il surriscaldamento globale all’interno di 1.5°C, azzerando le emissioni di gas serra entro il 2050, riducendo le emissioni di metano del 30% da qui al 2030, elettrificando le nuove autovetture in vendita entro il 2035, abbattendo entro il 2040 l’inquinamento da plastica.
Non è mancato l’impegno a concretizzare il prima possibile la transizione verso forme di energia sostenibili, allo scopo di porre fine alla spiacevole dipendenza da regimi controversi e assicurare un approvvigionamento stabile nel tempo. Il G7, a tal proposito, ha spinto per accelerare gli investimenti pubblici e privati in energie rinnovabili, ammettendo il ricorso al gas solo come “fase transitoria”. È arrivato il disco verde per l’energia nucleare, purché la costruzione dei reattori di nuova generazione avvenga nel rispetto dei massimi sistemi di sicurezza.
I vertici non hanno dimenticato, infine, le richieste dei paesi più poveri. Dalla transizione energetica al cambiamento climatico, le potenze hanno promesso numerosi investimenti pubblici e privati con il coinvolgimento delle istituzioni finanziarie internazionali e le banche multilaterali di sviluppo.
Entro il 2027, solo per fare un esempio, il “Partenariato del G7 per le infrastrutture e gli investimenti globali” mobiliterà fino a 600 miliardi di dollari. Una scelta oggi più che mai irrinunciabile per contrastare gli allettanti piani di sviluppo proposti da Cina e Russia. Tentativi insidiosi, volti a sottrarre alla sfera d’influenza occidentale paesi per troppo tempo costretti a sofferenze e privazioni.
Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia