(ASI) Washington – Le ambizioni russe in Ucraina hanno dimostrato quanto siano indispensabili il coordinamento e l’armonia d’intenti degli alleati occidentali. Eppure, ultimamente qualcosa pare essersi incrinato nelle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Nonostante il presidente Joe Biden vada rimarcando il radicale cambio di passo rispetto alla turbolenta amministrazione Trump, i fatti concreti raccontano una storia differente. Perché nei settori chiave dell’economia il democratico non ha mai abbandonato fino in fondo i connotati protezionistici tipici dell’avversario politico. E a farne le spese è proprio Bruxelles.
La scorsa estate, infatti, il governo americano ha dato il via libera all’Inflation Reduction Act. Nella speranza di ridurre l’impatto dell’inflazione galoppante, Washington ha stanziato a favore dell’intero comparto industriale e manifatturiero la cifra colossale di oltre 350 miliardi di dollari. Una robustissima iniezione di capitale, che rischia di attirare nel paese a stelle e strisce gli imprenditori e le grandi compagnie. Il tutto a scapito di Bruxelles.
Ma c’è di più, in quanto la legge interviene pesantemente pure nei meccanismi alla base della lotta ai cambiamenti climatici, della transizione a fonti di energia e modelli di vita sostenibili. D’ora in poi, i consumatori avranno diritto a considerevoli incentivi e detrazioni solo se acquisteranno veicoli elettrici equipaggiati con componenti provenienti in gran parte dagli Stai Uniti. Entro il 2028, inoltre, le batterie delle auto dovranno contenere materiali al 100% prodotti o assemblati in patria.
Uno smacco non indifferente per l’Unione, dal momento che numerose imprese europee producono proprio minerali critici e componenti essenziali all’assemblaggio e al corretto funzionamento delle batterie delle macchine elettriche. Imprese che, quindi, vedranno diminuire drasticamente i proventi delle esportazioni verso gli States in una congiuntura già di per sé piuttosto turbolenta.
La Commissione europea ha tentato di parare il colpo varando il Green Deal, un piano pensato appositamente per foraggiare il comparto produttivo comunitario. Allo scopo di mantenere la competitività agli occhi degli investitori internazionali, si è addirittura deciso di infrangere un annoso tabù e consentire alle cancellerie di erogare alle imprese gli aiuti di Stato. Una mossa, però, che rischia di avvantaggiare unicamente i paesi membri più robusti, in grado di sovvenzionare senza troppi problemi le proprie industrie.
Dunque, pur condividendo con Washington l’obiettivo della transizione verde e dell’indipendenza dai combustibili fossili russi, è evidente come per ora sia Bruxelles a soffrire maggiormente. E non è un caso che tale spinoso tema sia stato al centro di un recente incontro bilaterale alla Casa Bianca.
Ricevendo il 10 marzo Ursula von der Leyen presso lo Studio Ovale, Biden ha ostentato cordialità e tratteggiato l’Europa al pari di un “grande valore aggiunto per la sicurezza comune”. Ha ricordato che - a seguito della deflagrazione del conflitto ucraino - gli Stati Uniti hanno aiutato l’alleato a smarcarsi dal ricatto energetico di Vladimir Putin, fornendo una quantità doppia di gas naturale liquefatto in confronto a quanto preventivamente pattuito.
La presidente della Commissione, dal canto suo, ha definito “buone amiche” le due sponde dell’Atlantico e riconosciuto “l’enorme sostegno ricevuto per superare la crisi energetica”. Tuttavia, ha subito sottolineato la necessità di “conciliare la legge sulla riduzione dell'inflazione con il piano industriale Green Deal”.
Qualcosa, in tal senso, sembra essersi mosso. Al termine dell’incontro i due vertici hanno affermato: “Intendiamo avviare immediatamente i negoziati per un accordo mirato sui minerali critici”. Il fine dichiarato consiste nel far sì che anche i minerali per le batterie lavorati dalle aziende europee possano rientrare nei parametri di legge sugli incentivi a favore dei consumatori statunitensi. Un’azione che farebbe rientrare a pieno titolo le imprese comunitarie nel mercato automobilistico americano.
È stato annunciato, in aggiunta, l’avvio di un dialogo bilaterale rafforzato sugli incentivi al settore dello sviluppo sostenibile e delle tecnologie pulite. In tal modo le due parti potranno realizzare la transizione verde in maniera coordinata, evitando “qualsiasi interruzione del commercio transatlantico e dei flussi di investimento derivanti dai rispettivi incentivi”. Si tratta, cioè, di una vicendevole raccomandazione a rifuggire ulteriori spiacevoli incidenti, alla luce del cortocircuito fra la legge per la riduzione dell’inflazione e il Green Deal.
Entro il mese di ottobre si concluderanno i negoziati per l'Accordo globale sull'acciaio e l'alluminio sostenibili. Washington e Bruxelles si prefiggono di raggiungere un “risultato ambizioso” nella produzione e il commercio congiunto di acciaio e alluminio a basso impatto ambientale. Ciò sarà possibile grazie a investimenti comuni in imprese virtuose e avanzate, capaci di fabbricare abbattendo le emissioni nocive.
Particolare attenzione merita, poi, la preoccupazione condivisa per la “fuga di tecnologie sensibili e altri prodotti a duplice uso” in direzione di “destinazioni problematiche che confondono gli ambiti civili e militari”. Dietro il linguaggio diplomatico si cela il timore che paesi terzi possano sfruttare per azioni malevole beni prodotti o comunque posseduti in Occidente e successivamente venduti.
Il riferimento è alla tecnologia dei semiconduttori, i minuscoli componenti senza i quali la totalità dei dispositivi elettronici che maneggiamo ogni giorno non potrebbe funzionare. Questi elementi microscopici si trovano ovunque, dai cellulari e computer fino alle nostre automobili. Il problema è che essi possiedono un “duplice uso” in quanto, oltre al settore civile, sono fondamentali anche per la costruzione di armamenti sempre più avanzati, dagli effetti sempre più devastanti.
Pur non venendo direttamente menzionata, a destare irrequietezza è la Cina di Xi Jinping, attore globale via via più assertivo e desideroso di contendere all’Occidente lo scettro del potere nella progressiva ridefinizione degli equilibri internazionali. A tal punto che Stati Uniti e Unione europea hanno da poco promulgato due leggi assai simili che di fatto bloccano l’esportazione verso Pechino dei semiconduttori, di tutti i materiali sensibili e di tutte le conoscenze necessarie alla loro produzione. “Abbiamo un interesse comune nell'evitare che i capitali, le competenze e le conoscenze delle nostre aziende alimentino i progressi tecnologici e le capacità militari dei nostri rivali strategici” hanno affermato Biden e von der Leyen.
Il capo della Casa Bianca e la presidente della Commissione hanno, infine, colto l’occasione per condannare ancora una volta la “guerra illegale, ingiustificabile e arbitraria della Russia” in Ucraina. I due si sono detti pronti a muoversi insieme per continuare a sostenere politicamente, economicamente, militarmente Kyiv “per tutto il tempo necessario” e ad “applicare in modo aggressivo” le sanzioni contro Putin.
Nello Studio Ovale è dunque andato in scena un tentativo di graduale disgelo fra le due sponde dell’Atlantico. Von der Leyen ha parlato ai cronisti di una riunione “ottima, molto costruttiva”.
Ma se da un lato c’è relativa armonia sulla salvaguardia delle tecnologie sensibili e sull’Ucraina, dall’altro lato la partita sullo sviluppo del settore produttivo è ancora tutta da giocare. Il compito più difficile sarà conciliare il celato protezionismo del democratico Biden con la difesa degli interessi e delle legittime prospettive di crescita dell’Unione europea.
Quel che è certo è che, mentre Mosca e Pechino mostrano i muscoli, bisognerà trovare in fretta un compromesso equo, accettabile. Perché la reputazione dell’Occidente agli occhi del mondo non è mai stata messa tanto fortemente in discussione.
Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia