(ASI) Nel terzo trimestre, il PIL cinese è cresciuto del 3,9% su base annua, ovvero 3,5 punti percentuali in più rispetto al dato del secondo trimestre, segnato da una primavera caratterizzata da nuove diffuse misure di contenimento del contagio adottate in diverse città, prima tra tutte Shanghai, capitale economica e finanziaria del Paese.
Il dato ha superato le aspettative di molti analisti stranieri, soprattutto occidentali e giapponesi, che stimavano la crescita per il periodo luglio-settembre a livelli sensibilmente inferiori, con un valore mediano tra le diverse previsioni del 3,2%. Più in generale, i numeri pubblicati ieri dal Dipartimento Nazionale di Statistica, riportati da Xinhua, mostrano - come per altro atteso negli ultimi due mesi dalle maggiori imprese dei diversi settori manifatturieri - un importante segnale di stabilizzazione della ripresa.
Tutti gli indicatori sono nettamente migliorati: la produzione industriale a valore aggiunto delle principali aziende è aumentata del 4,8% su base annua e di 4,1 punti percentuali in più rispetto al secondo trimestre; i prezzi e l'occupazione si sono stabilizzati; le vendite al dettaglio dei beni di consumo sono cresciute del 3,5% su base annua, invertendo la tendenza fortemente negativa (-4,6%) del secondo trimestre; gli investimenti in capitale fisso, tra i protagonisti della ripresa, risultano in crescita del 5,7% sullo stesso periodo dell'anno scorso, ovvero 1,5 punti percentuali in più rispetto al secondo trimestre.
Tra i settori trainanti, il Dipartimento segnala gli investimenti nel manifatturiero (+10,1% su base annua), dove spicca l'hi-tech (+23,4%), e quelli nell'ambito dei servizi (+13,4%). Secondo il parere degli analisti del colosso asiatico, «l'economia cinese è riuscita a superare gli impatti negativi causati da fattori imprevisti, con indicatori importanti che rimangono entro un intervallo ragionevole e fattori positivi che si accumulano».
La tendenza non è un caso ma è frutto di una serie di misure adottate dal governo a cavallo tra la primavera e l'estate, di cui le ultime 19, considerate di accompagnamento, presentate lo scorso agosto, devono ancora mostrare i loro effetti. Cosa prevedono per le imprese questi provvedimenti? Niente di sostanzialmente nuovo nella Cina degli ultimi sette anni, in termini generali, e nella Cina post-Covid, in termini più specifici: riduzione del carico fiscale e facilitazione dell'accesso al credito. Stando ai dati ufficiali dell'Amministrazione Fiscale di Stato, al 20 settembre scorso, il volume complessivo "messo in campo" tra rimborsi, tagli e differimenti fiscali ammontava a 3.400 miliardi di yuan, pari a circa 467 miliardi di euro.
Secondo quanto riporta la banca centrale cinese (PBoC), a risalire è anche la fiducia delle banche, oltre che delle imprese, a livello macroeconomico. Senz'altro un buon segnale, sebbene permangano incertezze e complessità, soprattutto di natura esogena, con la guerra in Ucraina, in primis, a non promettere niente di buono. In Europa, lo scontro sempre più serrato non solo sta gravando sulla domanda ma sta mettendo in difficoltà anche la produzione industriale, aumentata leggermente (+0,6%) da maggio a giugno, calata notevolmente (-1,6%) tra giungo e luglio, e nuovamente risalita (+1,1%) tra luglio e agosto.
Nel Vecchio Continente, l'aumento dei prezzi delle materie prime, già comparso a livello globale lo scorso anno in seguito alla ripresa post-pandemica, è stato moltiplicato dalle ripercussioni del muro contro muro con Mosca. Nel particolare dell'Eurozona, le stime pubblicate a fine settembre da Eurostat calcolavano un'inflazione del 10%, contro il 3,8% registrato nel settembre 2021: dato su cui, ovviamente, pesa come un macigno l'energia, salita al 40,8%, contro il 17,6% del settembre 2021. Tra i Paesi più colpiti ci sono le tre repubbliche baltiche, Estonia, Lituania e Lettonia, che segnano un'inflazione stimata rispettivamente al 24,2%, 22,5% e al 22,4%. A seguire, più distanziati, Paesi Bassi (17,1%), Slovacchia (13,6%), Grecia (12,1) e Belgio (12%). Via via tutti gli altri, sino alla Francia (6,2%), l'economia meno colpita in questo senso nell'Eurozona.
Dal 2020, la Cina è diventata il primo partner commerciale dell'UE scavalcando gli Stati Uniti. Lo scorso anno, il gigante asiatico aveva esportato in UE beni per un valore complessivo pari a 472 miliardi di euro (+22%), importando invece dall'UE beni per un valore complessivo pari a 223 miliardi di euro (+10%). Nei primi sette mesi di quest'anno, l'export cinese verso l'UE ha continuato a crescere di circa il 20% ma l'export UE verso la Cina è calato del 7,5% [Dezan Shira & Associates].
Al di là dei dati di fine anno, che dovrebbero comunque restare in terreno positivo per l'Europa, a preoccupare è ciò che accadrà a partire dal prossimo, imminente, inverno e per l'intero 2023. Tutt'altro che isolata, la Russia ha visto assottigliarsi nel corso dei mesi le previsioni più negative per quest'anno: dalla stima, di inizio marzo, di una contrazione del 18%, tutte le stime più recenti parlano di un dato che dovrebbe oscillare tra il -3% e il -5%. A settembre, la stessa Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) ha dimezzato le previsioni negative per Mosca (-5%) correggendo la stima precedente (-10%). Nel Vecchio Continente, invece, se non sarà risolto in pochi mesi, il caro energia rischia seriamente di provocare una vera e propria fuga di investimenti.
Nel grande scontro geopolitico, ormai condotto a carte scoperte, tra Russia e Stati Uniti, l'Europa potrebbe presto scoprirsi vaso di coccio tra vasi di ferro. Ed ormai anche a Pechino diversi osservatori temono per la tenuta economica e sociale del Vecchio Continente.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia