(ASI) Si è chiusa ieri a Monaco di Baviera la 55a Conferenza sulla Sicurezza. Lanciata nell'autunno del 1963 col nome di Internationale Wehrkundebegegnung, su iniziativa di Ewald-Heinrich von Kleist-Schmenzin, la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco ha da parecchio tempo abbandonato il suo carattere di vertice euro-atlantico fra i Paesi membri della NATO, allargato al massimo a qualche alleato fuori dall'Occidente. Sul finire degli anni Novanta, infatti, sotto la guida del parlamentare della CDU Horst Teltschik, il summit cominciò ad aprirsi ai Paesi dell'Est, Russia compresa, e dell'Asia, a partire da Cina, Giappone ed India.

Tale orientamento è stato rafforzato durante il mandato, tutt'ora in corso, del diplomatico Wolfgang Ischinger, che dal 2008 presiede la Conferenza. In un suo saggio di cinque anni fa dal titolo Verso la Sicurezza Reciproca: da Wehrkunde alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, lo stesso Ischinger scrisse che quando la conferenza fece il suo debutto «le idee del tempo erano la distruzione reciproca assicurata [MAD, nda] e il gioco a somma zero», tanto che «il termine 'sicurezza reciproca' poteva essere applicato soltanto all'interno della NATO». Oggi, invece, la ricerca della sicurezza reciproca è una «prospettiva globale».

Questo orientamento è stato ribadito durante l'ultima edizione della Conferenza di Monaco. La Cina era presente con Yang Jiechi, membro dell'Ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese nonché direttore dell'Ufficio della Commissione per gli Affari Esteri dello stesso Comitato Centrale. Fondamentale per affrontare con pienezza di contenuti il tema del multilateralismo, il Paese asiatico è ormai un attore imprescindibile nel dibattito sulla governance globale del futuro prossimo, specie in una congiuntura geopolitica che, come questa, sta mettendo a dura prova la stabilità e la fiducia internazionali. Nonostante l'Unione Europea sia in evidente difficoltà rispetto alla politica estera di Donald Trump, i problemi globali toccano in realtà stratificazioni ben più profonde che soltanto un esperto e navigato punto di vista non-occidentale, come quello cinese, può evidentemente riuscire a mettere a fuoco con lucidità.

Estromessa, di fatto, dal confronto la Russia, ostracizzata a seguito della questione ucraina, Pechino resta l'unico interlocutore in grado di far ragionare sia Washington, rappresentata a Monaco dal vicepresidente Mike Pence, sia Bruxelles, mettendoli di fronte ad un fatto compiuto ma ancora scarsamente accettato dalle rispettive leadership: il multilateralismo è la via verso il multipolarismo. Questa equazione pare ancora ben lontana dall'essere compresa non solo e non tanto dalla Casa Bianca, quanto piuttosto dalle cancellerie europee, nonostante i buoni propositi esposti da Angela Merkel nel suo discorso in difesa del multilateralismo, dell'apertura e del dialogo globale.

Se, dal palco di Monaco, il segretario alla difesa britannico Gavin Williamson ha accusato la Russia di «rendere il mondo un luogo meno sicuro», la sua omologa tedesca Ursula von der Leyen non è stata da meno, indicando negli atteggiamenti della Russia una minaccia per l'Europa. Parole pesanti che assottigliano al minimo i margini di apertura ventilati dalla cancelliera, stemperate e bilanciate soltanto dalla condanna, da parte di Yang, della decisione unilaterale americana di ritirarsi dal Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (INF), siglato da Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1987 per risolvere la crisi dei cosiddetti "euromissili".

«La Cina - ha proseguito Yang Jiechi - sostiene un costante impegno per promuovere la cooperazione internazionale, sostenere e sviluppare il multilateralismo, e rendere l'ordine internazionale più giusto ed equo». In riferimento alla necessità di superare il protezionismo, poi, il diplomatico cinese ha ripetuto il messaggio che Pechino continua da tempo ad inviare al resto del mondo, ricordando le riforme intraprese ed il crescente grado di apertura dell'economia, con tutto quello che ne consegue in termini di nuove opportunità per i Paesi avanzati, i soli al momento in grado di esportare in Cina quei beni e servizi ad alto valore aggiunto che la nuova classe media di consumatori ricerca. Come ha ricordato a Monaco Wu Sichun, presidente dell'Istituto Nazionale Cinese per gli Studi sul Mar Cinese Meridionale, «ad ogni occasione, i partecipanti parlano della Cina [...] evidenziando come il Paese sia diventato forte e si sia avvicinato al centro della scena mondiale».

Eppure, nel pieno della nuova fase negoziale sul commercio con Washington, l'invito cinese a superare la logica dei dazi facili potrebbe essere esteso anche all'Unione Europea che, a quasi due anni e mezzo dalla scadenza dei termini previsti dall'Art. 15 del Protocollo di Adesione al WTO, non ha ancora riconosciuto alla Cina lo status di economia di mercato, mantenendo il cosiddetto metodo del "Paese surrogato" e lasciando il Paese asiatico in una condizione ambigua ed intermedia che se da un lato vede migliaia di aziende europee investire in Cina e ricercare il mercato cinese per esportare i propri prodotti, dall'altro consente agevolmente a Bruxelles di imporre unilateralmente dazi anti-dumping.

Malgrado le congratulazioni a Yang e al ruolo giocato dalla Cina nella politica globale da parte di diversi politici europei presenti, come Johann Wadephul della CDU o l'ex vicesegretario generale della NATO Alexander Vershbow, che ha elogiato il contributo di Pechino alla stabilità globale, anche le forze politiche occidentali più critiche verso Trump sembrano spesso immature ed incapaci di poter ridiscutere i meccanismi della governance globale in base ai nuovi equilibri internazionali, sia sul piano economico-finanziario che su quello politico. Le gravi affermazioni sulla Cina di George Soros durante l'ultimo Forum Economico Mondiale di Davos sono semplicemente gli isolati sfoghi di un anziano magnate-attivista che non si arrende al tramonto della sua visione del mondo o, piuttosto, rappresentano la punta dell'iceberg di un orientamento anticinese radicato e ramificato nell'establishment occidentale?

Probabilmente è la visione dominante all'interno della NATO, un'organizzazione sorta settant'anni fa in contrapposizione all'URSS di Stalin, ad aver esaurito da tempo la capacità di attualizzare il concetto di "difesa europea", al di fuori dei vecchi schemi geopolitici della Guerra Fredda. La costante ricerca di un nemico strategico cui contrapporsi nel "campo di battaglia" del Vecchio Continente e del Mediterraneo ha finora impedito qualsiasi progresso nella costruzione di un sistema di politica estera e sicurezza europea adeguato ai tempi ed indipendente, causando lacerazioni e ferite ancora non rimarginate in regioni già critiche come i Balcani e il Medio Oriente. La causa principale risiede anzitutto nella promessa "tradita" all'indomani dello scioglimento del Patto di Varsavia e del crollo dell'URSS nel 1991, quando anziché aprire un processo di finlandizzazione dell'Europa si è invece proceduto ad un costante allargamento ad Est della NATO, che da 12 è passata a ben 30 Paesi membri.

Quello relativo all'Iran resta, grazie soprattutto all'attivismo di Berlino, l'unico dossier sul quale l'Unione Europea si è finora dimostrata capace di adottare una posizione forte ed autonoma, malgrado certe pressioni esterne. Tuttavia è ancora troppo poco per poter parlare di una presenza solida dell'Europa nello scacchiere globale. Nonostante le parole di Federica Mogherini durante i lavori di Monaco, più che una struttura di difesa comune, in Europa manca ancora una vera visione strategica fondante.

Nuove dinamiche di dialogo e cooperazione quale ad esempio l'iniziativa Belt and Road che - attraverso il veicolo degli investimenti in materia di infrastrutture e innovazione - punta a migliorare la connettività fra Europa, Asia ed Africa, potrebbero costituire piattaforme di confronto dove le giovani generazioni di leader, imprenditori e ricercatori possano acquisire nuovi approcci al dialogo, non solo con Pechino ma con tutte le economie emergenti su temi cruciali del prossimo futuro quali lo sviluppo innovativo, la riduzione della povertà, la sostenibilità, l'ambiente e l'intelligenza artificiale. Solo allora, l'UE potrà trovare una sua collocazione geopolitica in un ordine internazionale che sarà molto diverso da quello del Novecento.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

 

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