(ASI) Argentina- Era stato preannunciato come uno dei temi più caldi del G20 che si è appena concluso a Buenos Aires. Durante la cena conclusiva Donald Trump e Xi Jinping si sono però accordati per una tregua che rimanda i nuovi aumenti sulle tariffe per le importazioni ai prossimi 90 giorni. Dallo scorso luglio Stati Uniti e Cina sono coinvolti in una guerra commerciale a colpi di dazi voluta dal presidente americano, al fine di penalizzare i comportamenti scorretti della Cina sul mercato e di rilanciare il “made in the Usa”, nella speranza di ridurre il disavanzo commerciale. Trump ha invece rimandato di tre mesi il programmato aumento dei dazi dal 10 al 25%, che per la Cina avrebbe significato 200 miliardi di dollari in più nel prezzo di vendita delle proprie merci a partire dal 1 gennaio 2019.
Nelle scorse settimane la risposta di Pechino era stata quella di tassare a loro volta le merci statunitensi, per un totale di 110 miliardi di dollari, colpendo settori dell’industria vicini alla base elettorale del presidente Usa.
La tregua raggiunta rappresenta per Pechino un grande successo, ma molte aziende in Cina e negli Stati Uniti hanno elaborato delle strategie per sopravvivere in un clima di guerra commerciale, perché prevedono che le frizioni fra i due Stati possano sopravvivere all’amministrazione Trump e ben oltre il 2020. La reazione del settore industriale, soprattutto nell’ambito più colpito, quello dell’arredamento, si è tradotto nella delocalizzazione e nella diversificazione della produzione.
Per far fronte a una tassazione che rischia di essere presto del 25%, molti imprenditori cinesi hanno scelto di spostare gran parte della produzione in Paesi limitrofi come Vietnam e Cambogia, dove lo slogan “guerra commerciale” sta diventando un ottimo incentivo agli investimenti.
È il caso della Man Wah Holdings, con sede a Hong Kong ma che sta spostando la produzione delle poltrone e dei divani (molto diffusi negli Usa tra l’altro) nella sua fabbrica di Ho Chi Minh, in Vietnam. Il problema sarà poi trovare altrettanta manodopera qualificata, come al momento è presente solo in Cina. Allo stesso modo si potrà però far fronte ai costi, perché generalmente i dazi si convertono in un aumento dei prezzi per i consumatori, un aspetto che penalizzerà secondo gli economisti non sollo il Pil cinese, ma anche quello statunitense. Le previsioni sono per un calo del 0,70 di quello americano, quando quello cinese dovrebbe scendere di 2,25 punti percentuali.
L’aspetto che non piace alla classe dirigente americana è principalmente la costante cessione della proprietà intellettuale delle aziende nazionali a quelle cinesi, che permetteva agli asiatici di fare affari in America e alle aziende statunitensi di spostare parte della produzione in Cina. «Una scelta necessaria», hanno ammesso molti imprenditori americani, «perché nei primi anni Duemila sarebbe stato impossibile fare fronte ai costi provocati dalla concorrenza aggressiva della Cina».
Qualche settimana fa il rappresentante per il commercio degli Stati Uniti Robert Lighthizer in un dibattito al Senato aveva risposto a chi criticava la politica trumpiana dei dazi: «Se pensate che questa guerra commerciale sia un comportamento stupido, allora arrendiamoci subito alla supremazia economica della Cina!».
In realtà, il nuovo contesto globale spingerà alla diversificazione anche molte multinazionali americane la cui produzione passa in parte per il rivale asiatico. Altrimenti, in regime di dazi, anche negli Stati Uniti per molte fabbriche sarà più difficile produrre e vendere ai consumatori senza rischiare ulteriori rincari. Molte di loro vedono le tassazioni trumpiane come un aumento del prezzo dei prodotti da mettere sul mercato. Alcuni rivenditori pensano, ma soprattutto sperano, che i consumatori siano disposti a spendere di più per il “made in Usa”. Altri, dati gli alti costi di produzione, sono certi che le scelte commerciali di Trump siano destinate al fallimento.
Lorenzo Nicolao – Agenzia Stampa Italia