(ASI) Nella sua visita in Israele, Trump ha messo nel pacchetto del suo ipotetico progetto di pace in Medio Oriente, anche gli Stati Uniti, facendo quello che nessun presidente americano aveva fatto da mezzo secolo ad oggi, recarsi al Muro del Pianto con la Kippah in testa, in una Gerusalemme est occupata nel 1967 da Tel Aviv e mai restituita ai palestinesi nonostante le centinaia di risoluzioni ONU che richiedevano e richiedono direttamente o indirettamente il ritorno dello Stato ebraico ai confini precedenti la guerra dei 6 giorni.
Il gesto potrebbe voler essere solo simbolico, un tentativo di ingraziarsi lo Stato ebraico, di aprire una breccia nel suo costante rifiuto di quale che sia pace con tutti i suoi nemici: con i palestinesi, che hanno da anni dichiarato la propria disponibilità a riconoscere l’Israele pre-1967, Hamas compreso; con la Siria, che rivendica giustamente la restituzione del Golan, e con un Iran del cui progetto nucleare a scopi civili, non c’ è alcuna prova che stia debordando in direzione della bomba atomica, orribile arma di distruzione di massa di cui peraltro proprio Israele ha accumulato dagli anni Sessanta ad oggi fino, a 200 esemplari.
Ma è un gesto, quello di Trump, che susciterà riserve in larga parte dell’opinione pubblica musulmana e araba, tanto piu’ che il Presidente americano ha sì visitato il Santo Sepolcro, ma non ha voluto metter piede nella Moschea di Omar, assalita da un paio di anni a questa parte dagli ebrei ortodossi, che dentro le sue mura dichiaravano e dichiarano di voler pregare - in nome del multiculturalismo (planetaria e pazzesca presa in giro ) - per il Dio del piano di sotto, quello del Tempio di Salomone. Follie mediorientali, di cui le diplomazie internazionali parlano probabilmente in segreto, ma – alla stessa stregua dell’attentato dell’11 settembre, operazione congiunta di Cia e Mossad secondo la solitaria esternazione del politico Cossiga – non trovano il coraggio di denunciare pubblicamente come una ideologia perversa, foriera di una guerra infinita, e se imitata da altri paesi e popoli, di guerre e instabilità permanenti.
IL PACCHETTO DI TRUMP TRA PAROLE (PER ORA) E FATTI
Ricapitoliamo a questo punto il quadro della situazione: il pacchetto dell’ipotetico progetto di pace di Trump è fatto sin qui di due fatti concreti e di dichiarazioni per ora rimaste tali:
1) è un fatto di rilievo il contratto per le vendita di armi all’Arabia saudita. L’Arabia saudita è uno sponsor dell’ISIS. L’ISIS è stata citata come organizzazione terrorista nel discorso di Trump a Riad. Se ne deduce che l’idea di Trump è comprare la disponibilità dei sauditi ad abbandonare il cosiddetto “Stato islamico”. E’ probabile che il piano abbia successo, anche grazie alla rateizzazione dei 110 miliardi di dollari. Ma Israele si dimostrerà disponibile come Riad? E con quali “regali” potrà essere convinto?
2) Ecco dunque le dichiarazioni, per ora solo tali: ad un Israele in cui le nuove generazioni si mostrano talvolta stanche dei richiami alla guerra permanente per uno Stato ebraico sempre minacciato dall’universo mondo, Trump offre in pasto il nucleare iraniano, Hezbollah e Hamas, entrambi movimenti di liberazione nazionale, e il secondo peraltro nella sua maggioritaria componente islamica, sunnita.
Ma dopo le dichiarazioni dovranno venire dei fatti concreti, delle scelte puntuali, che certamente Israele esigerà coerenti con quanto dichiarato. E che farà allora il Presidente americano? Getterà in uno scontro durissimo gli Stati Uniti, contro un Iran alleato della Russia e di gran lunga meglio armato dell’Iraq 2003 di Saddam Hussein? Metterà in crisi il dialogo con Mosca? E quale “indipendenza” dei palestinesi accetteranno gli israeliani? Non richiederanno forse “coerenza” a Trump, per cui lo Stato palestinese non solo resterà comunque un ministato, ma dovrà essere anche privato – come già dichiarato in passato da Tel Aviv - di armamenti “pericolosi” per Israele e le sue bombe atomiche?
3) Arriviamo dunque a quello che diventa per quanto già detto, il secondo fatto concreto, la visita al Muro del Pianto di Trump: l’America first di Trump è slogan condivisibile ma se rivolto alla difesa degli Stati Uniti contro la globalizzazione finanziaria selvaggia, e non nella direzione di una politica estera aggressiva e irrispettosa nei confronti del diritto internazionale. In Medio Oriente – una regione in cui è interesse primario degli Stati uniti mantenere buoni rapporti con tutti i paesi, e non solo con Israele – sembra proprio che non lo si stia applicando.
Nella storia postbelllica americana, l’ “America first” non è certo quella di Truman, che secondo John Kennedy citato da Gore Vidal nella prefazione di un libro di Israel Shaak, ricevette per la campagna elettorale del 1948 una valigetta con almeno un milione di dollari in cambio del riconoscimento da parte di Washington dello Stato di Israele, peraltro ben oltre i confini del Piano di spartizione ONU del 1947.
E’ invece quella del repubblicano Eisenhower, che nel 1956 in difesa di Nasser e preoccupato della concorrenza sovietica, impose il ritiro di inglesi, francesi e israeliani dal Canale di Suez e dalla penisola del Sinai; è quella del democratico JF Kennedy, che non solo dialogava con Nasser, ma chiese anche al presidente israeliano Levi Eskohl di fare ispezionare la centrale nucleare di Dimona, appena qualche mese prima di essere ucciso a Dallas: ovviamente dal “comunista” Osvald ( versione ortodossa), o dai “petrolieri” (versione alternativa).
Ancora: America first è quella di Bush senior (segretario di stato James Baker), che per evitare la guerra dopo l’illegittima occupazione del Kuwait da parte di Saddam Hussein il 2 agosto 1990, e dopo le prese di posizione di leaders occidentali come Mitterand e Andreotti a favore di un conferenza generale sul Medio Oriente comprensiva sia del caso Kuwait, sia del caso territori palestinesi occupati, questa stessa proposta fece a Shamir nel dicembre 1990, per riceverne un no secco, da cui la prima guerra d’Iraq, 17 gennaio 1991. E’ quella anche del presidente Clinton, gennaio 1998, quando intima a Barak “ritiratevi dai territori occupati”, da cui – ha ricordato Abrahhm Joushua su la Stampa di Torino - il piu’ burrascoso colloquio tra un primo ministro israeliano e un Presidente americano.
Persino in alcuni presidenti copelvoli di attacchi e guerre antiarabe è possibile rintracciare deboli tracce del motto Ameriva first: come in Reagan, che dopo l’Achille Lauro fece pace con Craxi nonostante l’accerchiamento dei Marines da parte dei Carabinieri italiani nell’aeroporto di Sigonella, segno che quel era stato ordinato nell’aereoporto siciliano, era stato riconosciuto dal presidente USA contrario ai veri interessi degli Stati Uniti. E come in Bush jr quando – con alle spalle le migliaia di soldati americani morti per una guerra che il congressista democratico Jim Moran aveva denunciato contraria ai veri interessi americani, e fatta in favore di quelli di Israele - rifiutò di sottostare al pressing mediatico e diplomatico israeliano di entrare in guerra contro l’Iran.
Ed infine Obama, alfiere – pur con una amministrazione inquinata dai soliti falchi, prima fra tutti Hillary Clinton (la cui sconfitta elettorale del 4 novembre 2016 da parte di Trump, sia detto per inciso, resta comunque un fatto positivo) - di un America first in chiave diplomatico mediorientale coincidente con un rifiuto delle guerre dell’ultimo decennio: il suo defilarsi dalla guerra di Libia, il suo rifiuto di bombardare la Siria nel 2013, e soprattutto il suo si al nucleare iraniano.
Pagine di storia che sicuramente Trump conosce anche nei suoi retroscena, visti i collaboratori di cui si è circondato per anni. E che però adesso rischiano di essere azzerate da una politica estera mediorientale tanto “nuova”, quanto precaria e a rischio di derive belliciste, in violazione della sovranità di stati come il Libano e l’Iran, e contro i diritti inalienabili dei palestinesi: o a uno Stato indipendente, o alla trasformazione di tutta la Palestina storica in un unico stato israelo-palestinese (come rivendicano anche diversi intellettuali israeliani), i cui cittadini abbiano eguali diritti e doveri.
Prof. Claudio Moffa