Cina. La dottrina di Xi Jinping frenerà gli impulsi di Trump?
e344aca0060f44dcbf0d1626c0e0c636 18(ASI) Pochi giorni fa, Xi Jinping. La governance della Cina, il libro pubblicato nel 2014 in cinese e in inglese, è stato ufficialmente presentato in Cambogia.
La versione del testo in lingua locale, presentata nel corso di una cerimonia a Phnom Penh, rappresenta «una nuova testimonianza delle proficue relazioni e della cooperazione tra la Cina e la Cambogia», secondo quanto sostenuto dal primo ministro cambogiano Hun Sen davanti alla stampa del suo Paese.
Il libro si suddivide in 18 capitoli, che racchiudono in tutto 79 tra discorsi, colloqui, interviste e annotazioni del presidente cinese, pronunciati o scritti nel periodo compreso tra novembre 2012 e giugno 2014. Si tratta, dunque, di un condensato che raccoglie la visione generale espressa dal leader asiatico in meno di due anni. Lo scorso novembre, il libro di Xi Jinping era uscito anche in lingua italiana col titolo Governare la Cina ed è ormai disponibile in sedici lingue in tutto il mondo.
L'interesse suscitato in patria e all'estero ha stimolato il dibattito politico, in particolare lo scorso anno, quando, con la presidenza cinese del G20, Pechino ha assunto un ruolo di indirizzo internazionale, garantendo un contributo alla governance globale che, in pochi anni, da importante è divenuto indispensabile. È stato poi il discorso tenuto da Xi Jinping lo scorso mese di gennaio a Davos, in occasione dell'ultima edizione del Forum Economico Mondiale, ad integrare il contenuto della pubblicazione attirando l'attenzione di quasi tutti gli organi di stampa internazionali. In particolare, i media generalisti occidentali hanno accolto con immotivato stupore l'intervento del presidente cinese in difesa della globalizzazione e del libero commercio. Da anni, infatti, la Cina e molte altre economie emergenti si battono contro il protezionismo per evitare che le misure commerciali adottate dai Paesi occidentali possano cristallizzarsi e restare sostanzialmente immutate anche quando i presupposti su cui erano state imbastite siano venuti meno.
 
L'idea di governance cinese
In realtà nel discorso di Davos erano presenti riflessioni e considerazioni molto più vaste. Xi aveva accennato alla necessità di ridurre le diseguaglianze sociali e il divario reddituale, di creare meccanismi più efficaci per controllare i capitali finanziari, di facilitare il commercio e gli investimenti, di rafforzare la cooperazione internazionale, di rispettare i diversi modelli di sviluppo e i diversi contributi al progresso scientifico e allo sviluppo, senza atteggiamenti esclusivi.
Le riforme strutturali presentate da Xi Jinping anche in occasione dell'incontro con il presidente Sergio Mattarella a Pechino lo scorso febbraio, evidenziano un Paese avviato sulla scia del terziario avanzato, dell'innovazione e della semplificazione, in un percorso che procede in parallelo all'estensione del welfare, alla riqualificazione urbana e alla tutela dell'ambiente. Insomma, alcuni dei temi affrontati due anni fa dall'Expo di Milano, come la sostenibilità e l'efficienza energetica, nella mente di Xi Jinping costituivano già da tempo le fondamenta della cosiddetta "nuova normalità", la fase che, stando ai piani, dovrà riorientare ed ordinare lo sviluppo economico e sociale.
Il volume che raccoglie le riflessioni del leader asiatico non fornisce alcuna indicazione astratta di carattere universale ma sintetizza la dottrina politica nazionale nel suo decennato, finalizzato essenzialmente alla realizzazione del cosiddetto «sogno cinese», ossia all'espansione delle possibilità e delle opportunità che il Paese può offrire alla popolazione e alla definitiva affermazione della potenza asiatica sulla scena internazionale. La ricetta di fondo per il raggiungimento di questi obiettivi sta nell'armonizzazione delle dinamiche tra la «mano invisibile» del mercato e la «mano visibile» del governo. Al primo fattore, secondo Xi, dovrebbe essere consentito di «svolgere un ruolo decisivo nel processo di allocazione delle risorse», mentre al secondo spetta «compiere in modo più efficace le sue funzioni» [Xi Jinping, Xi Jinping. The Governance of China, Foreign Languages Press, Pechino, 2014, pp. 128-129].
La presidenza Xi è ufficialmente cominciata nel marzo 2013, in una congiuntura internazionale molto complessa e delicata. Incombevano gli effetti della crisi del 2008, il Medio Oriente era in pieno subbuglio e l'Europa non cresceva. Appena un anno più tardi, molti economisti avrebbero cominciato a paventare il rischio di una grande stagnazione secolare. È così che, presentando la riforma strutturale dell'offerta, il governo cinese ha individuato il perno attorno a cui gireranno tutte le altre riforme, da quella amministrativa a quella fiscale, da quella delle grandi aziende di Stato a quella sociale.
Il G20 dell'anno scorso ha avuto la particolarità di mettere a confronto le priorità interne del Paese ospitante con quelle internazionali. Durante il summit di Hangzhou a settembre, la Cina ha sottolineato la necessità di riformare la governance globale sui temi salienti dell'economia, della finanza, della sicurezza e dello sviluppo umano. In un intervento all'Istituto Statale di Relazioni Internazionali di Mosca del 2013, tuttavia, Xi Jinping aveva già precisato che le sfide e le criticità per l'umanità «spaziano dal persistente impatto continuato della crisi finanziaria internazionale, un'evidente emersione di vari tipi di protezionismo, incessanti crisi regionali, un crescente egemonismo, politiche della forza e neo-interventismo, ad una serie di minacce tradizionali e non-convenzionali alla sicurezza» [Xi Jinping, Op. cit., p. 298], ma a distanza di quattro anni da quel discorso, le tensioni globali sembrano addirittura aumentare di intensità.
 
Soluzioni diplomatiche
La seconda giornata di Xi Jinping a Mar-a-Lago, in Florida, ospite del presidente americano Donald Trump, si è aperta a poche ore dal bombardamento degli Stati Uniti contro la base militare siriana di al-Shayrat, da cui, secondo l'accusa della Casa Bianca, sarebbero partiti gli attacchi chimici contro la cittadina di Khān Shaykhūn qualche giorno prima. La morte di 15 persone, di cui 6 militari e 9 civili, nel raid del Pentagono in Siria ha subito spazzato via l'ipotesi, avanzata da diversi osservatori, di un attacco concordato tra Mosca e Washington per calmare le acque delle polemiche interne dopo l'accertamento dell'utilizzo del gas sarin.
Come già accaduto in situazioni analoghe del passato, la Cina ha immediatamente condannato l'uso di armi chimiche sostenendo, tuttavia, la necessità di avviare un'inchiesta internazionale imparziale che ricostruisca con esattezza l'accaduto, valutando le responsabilità delle parti in campo. Malgrado il rapido susseguirsi di accuse contro Assad tra Washington, Ankara, Bruxelles, Riyāḍ e Dōḥa, infatti, non esistono ancora prove inconfutabili che possano attribuire al presidente siriano l'utilizzo di armi proibite, specie se si considera che nel 2014 Damasco aveva integralmente consegnato il suo arsenale chimico alle autorità internazionali, che ne affidarono lo smantellamento proprio agli Stati Uniti, come confermato nell'agosto di quell'anno da Ahmet Üzümcü, direttore generale Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW).
Nella fase immediatamente successiva all'attacco statunitense ad al-Shayrat, l'ambasciatore boliviano all'ONU, Sacha Llorenti, sollevando una fotografia ha richiamato, non senza sarcasmo, l'arringa dell'ex segretario di Stato americano Colin Powell, quando nel 2003, mostrando una provetta al pubblico, cercò di legittimare davanti al Consiglio di Sicurezza il dossier che avrebbe dovuto inchiodare Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa. A distanza di quattordici anni dall'invasione dell'Iraq, l'arsenale incriminato non è mai stato trovato.
Al di là delle opinioni politiche sul regime di Saddam Hussein, quel conflitto ha ribadito - purtroppo a carissimo prezzo - che l'ONU non dovrebbe mai essere scavalcata e che l'azione militare dovrebbe sempre rappresentare l'extrema ratio in qualunque scenario di crisi. I toni forti della Casa Bianca nei confronti della Siria e della Corea del Nord riportano alla luce vecchi rancori mai sopiti a Washington nei confronti di un elenco di Stati considerati minacciosi per la sicurezza nazionale e internazionale. La domanda che in molti si pongono, tuttavia, è se sia davvero così.
L'Esercito Arabo Siriano di Assad è ancora in possesso di materiale per la preparazione di gas nervino? L'Armata Coreana di Kim Jong-un ha davvero raggiunto capacità nucleari e balistiche tali da minacciare la sicurezza mondiale? I dubbi sono ancora troppi per poter ipotizzare qualunque soluzione militare ma i segnali da parte americana cominciano a preoccupare. In pochi giorni, dopo l'attacco alla base siriana, Trump ha prima ordinato alla portaerei Carl Vinson di dirigersi verso la Penisola Coreana e poi utilizzato per la prima volta sul campo afghano la potentissima bomba guidata GBU-43 MOAB. Col recente rimpasto al Consiglio di Sicurezza, in sostanza, Washington sembra aver recuperato l'internazionalismo repubblicano, già praticato e portato alle estreme conseguenze dai neoconservatori, con gli effetti che conosciamo, tra il 2000 e il 2006.
Per quanto riguarda il teatro di crisi più vicino, l'obiettivo di Pechino è quello di allentare le tensioni, riportare le parti al dialogo e riaprire concretamente i colloqui a sei sul nucleare (tra le due Coree, la Cina, il Giappone, la Russia e gli Stati Uniti), interrotti nel 2007 e ritentati, senza successo, più volte dopo il 2011. In Siria, invece, Pechino continua a sostenere la necessità di una soluzione politica alla crisi in atto nel Paese, ferma restando la legittimazione al contrasto di un terrorismo islamico che negli ultimi anni è tornato ad insanguinare anche la Cina per mano del separatismo uiguro, attivo nella regione autonoma dello Xinjiang, recentemente reclutato dall'ISIS e da al-Qaeda nel campo di battaglia mediorientale.
Alla luce dell'incontro, tutto sommato positivo, di Mar-a-Lago, anche Trump, dopo le invettive in campagna elettorale, sembra rendersi sempre più conto che Pechino è un attore indispensabile non solo economicamente ma anche politicamente. La Cina potrebbe così svolgere un decisivo ruolo di mediazione a tutto campo tra Stati Uniti e Russia e tra Stati Uniti e Corea del Nord. Tra tanto sfoggio di muscoli, ora è fondamentale imporre la saggezza per evitare il peggio.
 
 
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia
 

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