Cina. La riforma dell'offerta segnerà anche il 2017

china1(ASI) Parola d'ordine di questo 2016 a Pechino, la riforma strutturale dell'offerta è ormai diventata a tutti gli effetti il vero emblema del passaggio alla fase della "nuova normalità" cinese, sempre più contraddistinta da indicatori di crescita oscillanti tra il 6 e il 7%.
In Occidente, questo genere di politica viene generalmente ricordato come il cardine della dottrina economica dell'ex presidente americano Ronald Reagan, cui diversi leader politici europei si sono ispirati tra gli anni Ottanta e Novanta. Elogiata per molti anni anche dall'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ne stimava in particolare gli effetti benefici generati dalla riduzione della pressione fiscale, la riforma dell'offerta viene ora adottata per la prima volta in un Paese a guida comunista, mandando in tilt analisti americani come Barry Naughton e Andrew Batson che, intervistati da BloombergBusinessweek nel settembre scorso, hanno giudicato la riforma cinese nei termini di un tentativo di aumentare il controllo statale sull'economia, anziché ridurlo.

Il presidente Xi Jinping presentò ufficialmente il piano in occasione dell'11° vertice del Gruppo Dirigente Centrale per gli Affari Economici e Finanziari, il 10 novembre 2015, al termine di un percorso che tra il 2012 e la metà del 2013 aveva visto il governo impegnato a stimolare i consumi attraverso l'urbanizzazione e tra la metà del 2013 e l'inizio del 2014 ad adottare politiche parzialmente restrittive che hanno invece portato ad un rallentamento dei consumi [Guan Q. - Zhu Z., Notes from Latest Meeting of Party's Economic Affairs Group, Caixin Online, 12/11/2015].

Lo scorso maggio, l'economista Zhao Yao aveva osservato la crescente discrepanza tra domanda e offerta, evidenziando come «la Cina sta producendo tantissimo, ma la sua popolazione non sta comprando altrettanto» [China's supply-side reform right on target as its economy enters new normal: expert, Xinhua, 30/5/2016]. Tuttavia, stando ai dati relativi al reddito disponibile (+7,4%) e all'inflazione (1,4%) nel 2015, era da escludersi una diminuzione del potere d'acquisto, tanto più in una fase generale decennale di forte espansione della classe media. Tutto suggeriva, dunque, che fosse la qualità dei beni e dei servizi a dover compiere quell'ulteriore passo in avanti sulla catena del valore, determinante per fare del Paese un leader mondiale dell'innovazione e della sostenibilità.

Secondo Chong Koh Ping, del singaporiano The Straits Times, «la propensione dei consumatori cinesi ad acquistare prodotti stranieri mostra una piaga nell'economia cinese e cioè che la sua manifattura non è riuscita a tenere il passo delle mutate esigenze della nuova generazione di consumatori, più benestante ed esperta» [Chong K.P., Xi's 'supply-side' remedy for China's economy, The Straits Times, 4/6/2016]. Ovviamente, questo è vero solo in parte. Nel corso degli ultimi anni, infatti, brand come Huawei, Lenovo, Hisense o Xiaomi non soltanto hanno conquistato il favore dei consumatori cinesi ma hanno anche penetrato con un certo successo i mercati esteri. Inoltre, la possibilità di acquistare prodotti all'estero è cresciuta esponenzialmente grazie allo stesso colosso cinese dell'e-commerce Alibaba che, soltanto lo scorso 11 novembre, in occasione della Giornata del Single (vero e proprio shopping-day cinese), ha registrato vendite per 16,87 miliardi di euro, circa il 25,5% in più rispetto all'anno precedente. Tuttavia, si tratta per lo più di marchi legati ai settori dell'elettronica e della logistica avanzata, dimostrando che la strada maestra per il salto di qualità passa proprio da una forte spinta all'innovazione, che solo la riforma strutturale dell'offerta può garantire.

Nel corso degli ultimi dodici mesi, Xi Jinping ha così puntato sempre di più in questa direzione, garantendo che il 2017 vedrà la Cina, in tal senso, pigiare il piede sull'acceleratore. La critica neo-liberale non sbaglia quando afferma che la riforma dell'offerta cinese è diversa da quella che Reagan realizzò negli anni Ottanta, ma pecca evidentemente di "ideologismo" nel considerarne negativamente i fattori di discontinuità fino a contraddirsi sostenendo, di fatto, che la deregulation starebbe portando la Cina ad una nuova e più forte regulation.

Dunque, qual è la "filosofia" che muove la riforma cinese, distinguendola da quella statunitense? Secondo Deng Junfang di CCTV, «se la riforma dell'offerta, meglio nota come "Reaganomics" [...] non rappresenta qualcosa di nuovo, la sua versione cinese possiede proprie caratteristiche peculiari» e contempla «cinque obiettivi principali»: tagliare la capacità in eccesso, alleggerire le scorte, ridurre la leva finanziaria (cioè l'indebitamento), abbassare i costi aziendali e rinforzare i punti deboli dell'economia. Per Deng, in sostanza, «misure già approvate come l'abbandono della politica del figlio unico, il taglio delle tasse e lo snellimento della burocrazia sono calzanti esempi di riforma dell'offerta».

La riforma dell'offerta cinese è, dunque, anzitutto una riforma dell'offerta con caratteristiche cinesi, cioè una riforma che prende vita a partire dalle condizioni economiche e dalle esigenze strutturali di un Paese di circa 1,4 miliardi di abitanti, di cui oltre il 70% inclusi nel ceto medio, che ha attraversato due rivoluzioni industriali in meno di quaranta anni e che si sta avvicinando ad affrontare la quarta. La deregolamentazione e la semplificazione vengono incontro in questa fase allo scopo di favorire lo sviluppo di un'imprenditorialità di massa e innovativa. Secondo i dati diffusi dal Ministero del Tesoro cinese lo scorso gennaio, nel 2015 il governo ha ridotto le tasse per un totale di 40,94 miliardi di euro, preparando il terreno per agevolare l'industria leggera, le piccole e medie imprese e per stimolare i settori legati all'alta tecnologia. I dati sugli investimenti nel periodo gennaio-novembre 2016, pubblicati meno di venti giorni fa dal Dipartimento Nazionale di Statistica, evidenziano una crescita significativa degli investimenti nell'elettronica e telecomunicazioni (+14,7%), nelle industrie elettrica, idrica e del gas (+13,2%), nella processazione alimentare (+9,5%) e nel tessile (+9,3%).

Per quanto riguarda la capacità industriale in eccesso, il Consiglio di Stato, in una nota diffusa il mese scorso, ha comunicato che nel 2016 la Cina si è impegnata a ridurre la produzione siderurgica di 45 milioni di tonnellate e quella di carbone di 250 milioni di tonnellate. Come dimostrano anche i recenti dati del Dipartimento Nazionale di Statistica, tra gennaio e novembre gli investimenti nell'industria estrattiva sono scesi del 20,2%. Nello specifico, sono calati drasticamente nell'Oil&Gas (-33,9%) e nei minerali ferrosi (-29,1%). Sul piano del consumo, invece, da gennaio il numero dei beni soggetti ai controlli del governo sui prezzi è stato ridotto dell'80%, facendo sì che il mercato giochi un ruolo più importante nel ciclo economico.

Chiaramente, tutto ciò non implicherà una "scomparsa" dello Stato e dei suoi fisiologici meccanismi di controllo né una riduzione della rete del welfare, che anzi si prevede in espansione, in particolare per quanto riguarda la sanità, l'istruzione e l'assistenza alle donne in maternità, ai disabili e agli anziani. E forse è proprio questa la differenza principale tra Ronald Reagan e Xi Jinping.

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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