Rivoluzione monetaria e economica, politica di pace: Donald Trump è un nuovo Kennedy?

trump5(ASI) Rivoluzione monetaria, economica e sociale all’interno, e politica di pace sul piano internazionale: sono le due promesse di Donald Trump a due giorni dalla sua vittoria elettorale.

Una svolta profonda nella storia degli Stati Uniti, soprattutto quella più recente, il quarto di secolo che dagli inizi degli anni Novanta ha fatto di Whashington – con alcune eccezioni, vedi le pur precarie opzioni di Obama nelle guerre di Libia e di Siria – una superpotenza iperinterventista sul piano militare, e allo stesso tempo un paese succube come il resto del mondo, della finanziarizzazione globale negatrice di sviluppo e di crescita della ricchezza reale. Quel mondo di Wall Street il cui sostegno alla Clinton, Trump ha non a caso denunciato durante la campagna elettorale.

E’ una svolta probabilmente non invisa al Presidente uscente – vedi il lungo cordiale colloquio di Obama con Trump - e che potrebbe riservare ancora molte sorprese. Una pagina che rimette in discussione molte certezze circolate in tutti i media, attuali e dell’ultimo anno.

Tra le domande, interne ed esterne allo scenario americano: la vittoria di Trump non rappresenta forse anche il ritorno alla politica di una fetta almeno dell’elettorato americano? Chi ha vinto e chi ha perso dopo la sconfitta della Clinton, in Europa e in Medio Oriente? Che fine farà l’alleanza angloamericana protagonista di tutte le guerre postbipolari dal 1991 ad oggi, e rilanciata dalla Brexit? Trump rimetterà veramente in discussione l’accordo nucleare iraniano? Ed è poi così amico di Israele, come ha sostenuto ieri Netanyahu? E ancora: c’è una relazione tra l’accelerazione della guerra all’Isil negli ultimi due mesi - da Mosul a Raqqa a Aleppo - e la campagna elettorale risoltasi solo all’ultimo momento a svantaggio della Clinton?

Sono di ritorno dall’Iran, invitato a svolgere alcune conferenze nelle Università di Teheran e di altre città del paese, e l’osservatorio del paese di Rohani e Ahmadinejad mi ha aiutato a capire alcuni snodi cruciali delle elezioni americane. Per esempio il fatto che, come titola stamane anche una striscia di Rai News 24, i piazzaioli che urlano al fascismo e al razzismo del neopresidente, sono in realtà guidati da professionisti della violenza di piazza, che agiscono per creare il caos in un paese che ha scelto con il voto di domenica la libertà e la pace. “Traducendo” in italiano, ed elevando all’ennesima potenza il nostro scenario nazionale, chi protesta oggi contro Trump, sono gli emuli in salsa americana delle monetine a Craxi di un quarto di secolo fa, e dei black block di tante manifestazioni “antiregime” del nuovo secolo. E’ il “fascismo dell’antifascismo” dell’epoca postbipolare, al servizio dei veri poteri forti che controllano o inquinano la democrazia di tutti i paesi occidentali

Ma vediamo adesso alcuni punti salienti di quanto ruota attorno alla vittoria di Trump.

1) Le elezioni americane e l’accelerazione della guerra all’ISIL. Nelle ultime settimane, la grande alleanza anti-Isil, pur variegata nell’intensità dell’impegno sul terreno militare, pur alle prese con le sue contraddizioni interne - vedi tra l’altro l’ opposizione di Erdogan al secessionismo curdo - ha mostrato una generale tendenza all’accelerazione della guerra al Daesh e ai ribelli antiAssad, da Aleppo a Raqqa a Mosul. La domanda è: c’è una relazione tra il diffuso timore (o aspettativa) nella vittoria della Clinton, e la ricerca di una rapida sconfitta definitiva o comunque di alta valenza militare, dei terroristi islamisti, appoggiati in funzione anti Assad dalla candidata democratica? E’ probabile. E se la risposta è positiva, siamo di nuovo di fronte alla solita questione, al solito punto fermo nella metodologia da seguire per capire le politiche estere dei paesi occidentali (e non solo) rispetto al groviglio mediorientale: se cioè, è stata la paura di una vittoria della Clinton a muovere con maggior determinazione sul terreno di guerra al terrorismo islamista, non solo i russi ma anche una parte dell’Occidente, questo vuol dire che né gli Stati Uniti, né l’Europa sono realtà monolitiche. In ogni ‘campo’ d’azione della diplomazia e delle attività militari dei paesi occidentali, emerge sempre una divisione tra ‘falchi’ e ‘colombe’, tra i sostenitori di una linea bellicista verso Mosca e i suoi alleati, e quelli di un'altra strategia, pronta al dialogo e alla cooperazione con Putin e persino Assad contro il comune nemico terrorista. Sulla cruciale proposta di una no fly zone in Siria prima dell’intervento di Mosca a fianco di Assad, la Clinton e Kerry erano favorevoli, Obama e il coraggioso e buon ebreo Bennie Sanders contrari.

2) La Brexit non è stata solo una rivolta di popolo, è stata ed è anche un tentativo di ritorno in auge dell’interventismo britannico negli scacchieri di crisi. La Brexit quale ci siamo sognati in Italia non esiste, o quanto meno va meglio articolata. La Brexit non è stata tanto o solo la rivolta del popolo contro la crisi e contro i troppi immigrati – secondo una proiezione dei problemi italiani sullo scenario britannico - quanto piuttosto la concretizzazione del desiderio dei poteri forti inglesi – compresa probabilmente l’elite della City - di liberarsi dai lacci e dai condizionamenti di una Unione europea giudicata troppo “moderata” nei confronti della Russia e in quanto tale, incline ad accettare per realpolitk Assad.

Basta guardare ai fatti per capire. La Merkel intesse da sempre rapporti proficui con Mosca, non scalfiti né dalla crisi ucraina né dalla guerra di Siria. Hollande, nell’ultimo vertice della NATO, ha ammonito a non dichiarare la Russia “nemico”, pur accettando un piccolo-medio rafforzamento delle truppe NATO ai confini dello Stato russo. Renzi ha tolto le sanzioni a Mosca e all’Iran, e ha invitato il presidente iraniano Rohani, primo capo di governo europeo (il premier italiano) a rompere il tabù dello scambio di visite con Tehran.

Beninteso, quanto appena detto avviene in modo “silenzioso”, ma è un fatto che i paesi guida dell’UE sono distanti non solo dalle logiche belliciste della guerra di Libia di cinque anni fa, con i sionisti Sarkozy e Cameron scatenati nell’aggressione a Gheddafi, ma anche da quelle di tutto il periodo precedente a quel tragico evento: tutta cioè l’epoca postbipolare, un quarto di secolo cadenzato da conflitti cruenti che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime, e da una danza della morte animata per l’appunto dal duetto anglo-americano, “e dietro di loro”, per riproporre quanto esplicitamente dichiarato il 20 marzo 2003 dal presidente iracheno Saddam Hussein nella sua ultima conferenza stampa prima di entrare in clandestinità, “il sionismo maledetto”. Iraq 91, Bosnia 95, Jugoslavia 99, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Georgia 2008, Libia 2011.

La Clinton era pronta a tornare a questa bell’epoque sul terreno siriano, e con lei – ricostruire il duetto angloamericano - la May. Il 20 ottobre scorso, mentre continuavano i bombardamenti russo-siriani sul quartiere di Aleppo in mano ai ribelli islamisti, la premier britannica – non a caso contraria a un riesame della Brexit da parte del Parlamento britannico, come richiesto dall’Alta Corte del Regno Unito - perorava una azione congiunta del mondo occidentale perché venissero bloccati i “disgustosi” bombardamenti di Mosca, e si costringesse Putin a una “soluzione politica” della guerra siriana. Come dire, sì (forse) alla guerra contro l’Isis, ma si anche alla costruzione immediata di un’alternativa a Assad, attraverso la trasformazione dei cosiddetti “ribelli moderati” da nemici della pace – come nella strategia russa, sostenuta o tollerata da Obama – in soggetti politici legittimi per preparare la transizione alla nuova Siria pacificata e stabile. Non è andata così. Gli Stati Uniti di Trump non seguiranno le velleità belliciste della nuova Gran Bretagna della May, ma si collocheranno più o meno a fianco dei paesi dell’UE favorevoli al dialogo con Putin e con Assad. Né Trump può non sapere che la sua richiesta di por fine al progetto nucleare iraniano è solo una battuta propandistica, un impossibile obbiettivo visto che il progetto di cui parla è condiviso da altri paesi occidentali e dalla Russia, e “benedetto” dalle Nazioni Unite. Come ha detto il presidente iraniano Rohani, comunque i risultati delle presidenziali americane non cambieranno nulla delle direttrici della politica interna e estera di Teheran.

3) Anche Israele canta vittoria, ma è un bluff. Quanto appena detto sui rapporti tra Israele e Trump sembra essere smentito dalle reazioni di Tel Aviv alla sua vittoria. Fonti ufficiali dello Stato ebraico riportate da Press TV, dichiarano che con la vittoria del candidato repubblicano il “caso” dello Stato Palestinese è ormai “over”, chiuso. Netanyahu in persona proclama il nuovo capo della Casa Bianca come un grande amico di Israele. Sugli schermi televisivi americani compare addirittura una micro-manifestazione, venti persone al massimo, con una bandiera israeliana inalberata da uno dei dimostranti, e proprio accanto a lui, qualcuno che sventola un panno con su scritto Trump.

Balle: fermo restando che l’opportunismo e le minacce sono due costituenti diffusi dell’agire politico in quale che sia paese del mondo, per adesso, a 24 ore dai risultati delle presidenziali americane, quella appena citata è solo propaganda per salvare la faccia di Netanyahu, per permettergli cioè di ingoiare con minore difficoltà il boccone amaro della disfatta della sua candidata prediletta, Hillary Rodham Clinton. La quale a sua volta rilancia nello stesso stile, prima complimentandosi con il suo avversario, poi, come se nulla fosse accaduto, offrendogli la sua “collaborazione”. Una vera offerta o un immediato pressing sul nemico? Come dire, ti darò consigli ma stai attento a te, perché abbiamo molte cartucce da sparare, persino un archivio pieno delle tue avventure amorose?

Quale che sia la risposta (quella giusta parrebbe proprio la seconda) Trump è ben diverso dalla Clinton. Certo, se non lo ha già fatto, il neo-presidente risponderà alle avances “postume” del primo ministro israeliano in modo formalmente positivo, ma il problema è vedere come si svolgerà nel concreto la sua politica in Medio Oriente e in Europa orientale, e come affronterà anche il problema della crisi da debito che attanaglia gli Stati Uniti come la maggior parte dei paesi occidentali. Qui le differenze sono nette.

4) Due slogans di Trump: contro il Debito, “Print money”. Su Assad e Russia: “we will seek common ground, not hostility, partnership not conflict”.

Cominciamo dall’economia. Mentre l’ombra di Wall Street e del grande capitale bancario e finanziario attornia da sempre l’immagine di Hillary Clinton, Donald Trump si sta muovendo in una direzione opposta: l’annuncio di una drastica riduzione delle tasse, accompagnato da uno sviluppo della produzione e della occupazione, è sembrato a qualche osservatore contradditorio con l’altro obbiettivo dichiarato del Capo della Casa Bianca, la riduzione del debito. Ma non è così: il 9 maggio scorso, ad esempio, Donald Trump se ne uscì con una battuta apparentemente “strana” ma assolutamente logica, parlando del Debito americano: “print money”, stampate le banconote, così si esce dalla crisi. E’ difficile che l’appello dell’esponente repubblicano fosse rivolto alla privata FED, perché se così fosse non ci sarebbe alcuna possibilità di uscita dalla crisi da Debito, né negli Stati né in qualsiasi altro paese. Dunque, l’ “appello” è allo Stato. Trump come Kennedy, Il suo print money come i certificati argentiferi del 1963. Stupefacente. Ammirevole. Anche se problematico.

Il paragone con Kennedy puo’ sembrare irriverente, tanto più che Trump parla un linguaggio “di destra” sull’immigrazione: eppure anche sull’altro corno della politica del neo Presidente, l’alternativa tra pace e guerra nelle relazioni internazionali, il confronto regge. Contro le posizioni belliciste della Rodham Clinton (colei che disse durante la guerra di Libia, come riferito a suo tempo anche da la Stampa, che bisognava ”catturare Gheddafi e ammazzarlo”) Trump ha condotto una campagna elettorale all’insegna della realpolitik e della moderazione: Hillary Clinton ci vuole trascinare verso la III guerra mondiale; Assad è “il male minore” rispetto all ISIS; con la Russia bisogna dialogare (e non far guerra come pretendeva Soros dai paesi europei durante la crisi ucraina di qualche anno fa). E poi, subito dopo l’esito vincente delle presidenziali, la sintesi della sua strategia: in generale e ovunque, “we will seek common ground, not hostility; partnership not conflict” Cercheremo un terreno comune, non l’ostilità; la collaborazione, non il conflitto”. Non è da poco: è Obama, anch’egli sottoposto al pressing della Lobby, centuplicato.

 

5) Di nuovo sconfitta l’ipotesi di una terza guerra mondiale. Concludo con altre due considerazioni. La prima riguarda la previsione di una guerra mondiale, qui e là reiterata più volte negli ultimi anni e di nuovo smentita dai fatti: di nuovo, invece, la Politica ha vinto. Io stesso, da sempre attento ai “due Occidenti” negli USA e nei paesi europei – uno malato di guerra e servo di certo bellicismo vicinorientale, e l’altro favorevole al dialogo e alla collaborazione con la Russia e i Brics – ho temuto per la vittoria della Clinton e le sue conseguenze. Leggendo su un aereo delle Turkish Airlines il Daily news in inglese del quotidiano turco Hurryet, ho visto – un paio di settimane prima delle presidenziali americane - un articolo titolato appunto “La Clinton ci porterà verso la III guerra mondiale”. Ma non è stato così. Il ruolo di Obama è’ stato probabilmente decisivo, nonostante il suo allineamento formale alla candidata democratica durante la campagna elettorale.

La seconda conclusione è che quanto detto in questo articolo non vuol dire che il futuro degli Stati Uniti e dunque del pianeta sia roseo. Gli ostacoli saranno tanti., a cominciare dal terrorismo. Ma la speranza di una svolta vera nella politica internazionale, e forse nelle politiche monetarie, economiche e sociali nazionali di altri governi occidentali, resta forte. Ora si può guardare ai conflitti planetari e alla crisi mondiale, con maggiore ottimismo. Solo un leader in Italia e forse in Europa, pare non capire, papa Francesco: la sua battuta “bisogna costruire ponti, non muri”, è decisamente grave. Il Francesco dell’entrate tutti, fratelli multietnici, e peccate pure con stupri rapine e quant’altro, noi vi confesseremo e vi perdoneremo, sta dicendo a Renzi – il premier del sacrosanto sì al Ponte di Messina - di obbedire al suo buonismo irresponsabile invece che a Trump. C’è da augurarsi invece che se proprio di obbedienza si vuole parlare – ma è ovvio che non è questa la strada – è meglio che questa volta l’Italia obbedisca agli Stati Uniti che al Vaticano. Anche sull’immigrazione, il muro di Trump come simbolo di un controllo dei flussi da parte della Politica, come ai tempi del tentativo fallito della Bossi Fini.

Claudio Moffa

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